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martedì 17 giugno 2025

A Single Action Can Lead to Change and Transformation. | Marina Ponti | TEDxRoma

How a global movement started in a kitchen | Rebecca Prince-Ruiz | TEDxPerthSalon

L’Occhio del Gatto: Un Viaggio a quattro zampe nel Cuore Oscuro di Stephen King

Immaginate un gatto, un semplice micio dal pelo arruffato, che si muove come un filo conduttore tra storie di terrore, follia e redenzione. L’Occhio del Gatto (1985), diretto da Lewis Teague e scritto dal maestro dell’horror Stephen King, non è solo un film antologico, ma un esperimento cinematografico che intreccia tre racconti con un’energia weird, grottesca e profondamente umana. E il gatto, Generale, non è solo un testimone: è il cuore pulsante di questa narrazione, un eroe silenzioso che ci guida nei meandri della paura.

Un’antologia che sa di King
Tratto da due racconti di Night Shift (“Quitters, Inc.” e “The Ledge”) e da un soggetto originale scritto per il grande schermo, L’Occhio del Gatto è un film che cattura l’essenza di Stephen King: la capacità di trasformare il quotidiano in un incubo. Le tre storie, unite dal viaggio di Generale, sono come frammenti di un sogno inquietante, ognuna con un tono diverso ma accomunata da quel senso di minaccia che solo King sa evocare.
La prima storia, Quitters, Inc., è un pugno nello stomaco. Dick Morrison (James Woods, perfetto nel suo mix di arroganza e fragilità) è un fumatore incallito che si affida a una misteriosa clinica per smettere. Ma la Quitters, Inc. non è una spa rilassante: i suoi metodi sono sadici, quasi diabolici. Senza spoiler, diciamo che il film trasforma il vizio del fumo in un thriller psicologico al confine col surreale, con una critica velata alla società del controllo. È il segmento più teso, con Woods che regge la scena con un’intensità che ti fa quasi dimenticare di respirare.
Poi c’è The Ledge, un gioco al massacro che vede Johnny Norris (Robert Hays), un tennista costretto a una prova di coraggio estrema: camminare sul cornicione di un grattacielo per salvare se stesso e l’amante, moglie di un boss mafioso (Kenneth McMillan, viscido come pochi). Qui King gioca con la suspense pura, e il cornicione diventa una metafora della precarietà della vita. La tensione è palpabile, il vento sembra soffiare davvero, e il finale ribalta i ruoli in un modo che ti strappa un sorriso maligno. È il segmento più “fisico”, che ti tiene incollato allo schermo con il cuore in gola.
Infine, arriviamo al cuore del film: la storia di Amanda (una giovanissima Drew Barrymore, scelta da King in persona). Qui Generale, il gatto, diventa protagonista assoluto, chiamato telepaticamente dalla piccola per salvarla da un troll maligno che le ruba il respiro. Questo segmento è il più fiabesco, ma non per questo meno inquietante. Il troll, un pupazzo che spaventò davvero Drew durante le riprese (la sua reazione è autentica!), è un mostro che sembra uscito da un incubo infantile. La regia di Teague brilla nel bilanciare tenerezza e orrore, e il legame tra Amanda e Generale scalda il cuore, anche quando il terrore è dietro l’angolo.
Un gatto come narratore
Generale non è un semplice espediente narrativo. È il collante emotivo del film, un osservatore che attraversa le vite dei protagonisti con una saggezza quasi soprannaturale. King, amante degli animali, usa il gatto per ricordarci che anche nelle storie più oscure c’è spazio per la speranza. Ogni volta che Generale appare, con i suoi occhi luminosi e il suo passo felpato, sembra dirci: “Andrà tutto bene… forse”. È un tocco geniale che rende il film unico nel panorama delle antologie horror.
Easter egg e amore per King
Se sei un fan di Stephen King, L’Occhio del Gatto è una miniera di citazioni. Un sanbernardo che ricorda Cujo, un’auto con un adesivo che urla Christine, un personaggio che legge Pet Sematary o guarda La zona morta in TV: ogni dettaglio è un omaggio al Re dell’horror. Questi riferimenti non sono mai invadenti, ma strizzano l’occhio ai fan, come se King ci invitasse a giocare nel suo universo.
Perché guardarlo?
L’Occhio del Gatto non è perfetto. A volte il ritmo inciampa, e il tono dei tre segmenti è così diverso che potrebbe spiazzare chi cerca coerenza. Ma è proprio questa varietà a renderlo speciale: è un film che osa, che mescola satira sociale, suspense hitchcockiana e horror fiabesco. La regia di Teague è solida, la colonna sonora di Alan Silvestri dà un tocco di magia, e il cast (soprattutto Woods e Barrymore) è in gran forma.
Se ami Stephen King, questo film è una chicca che non puoi perderti. È meno famoso di It o Shining, ma ha un fascino tutto suo, come una storia raccontata davanti a un falò. E se hai un gatto, guardalo con lui: magari, come Generale, ha una missione segreta da compiere.




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Fines3 - Lucy Sante

lunedì 16 giugno 2025

"Vestito per uccidere": il thriller provocatorio di Brian De Palma che danza tra erotismo e suspense

 Immaginate di trovarvi in una New York degli anni '80, avvolta da un fascino decadente, dove ogni angolo sembra nascondere un segreto. È in questo scenario che Brian De Palma, maestro del thriller psicologico, tesse la tela di Vestito per uccidere (Dressed to Kill, 1980), un film che è al contempo un omaggio a Hitchcock e una provocazione audace, capace di far discutere ancora oggi. Se amate i film che vi tengono incollati allo schermo, mescolando tensione, erotismo e colpi di scena, preparatevi a un viaggio che non dimenticherete facilmente.

Una trama che seduce e spaventa
Al centro della storia c’è Kate Miller (Angie Dickinson), una casalinga quarantenne intrappolata in una vita di insoddisfazioni. La sua uscita dallo studio del dottor Robert Elliott (Michael Caine) segna l’inizio di un’escalation drammatica: un incontro impulsivo con uno sconosciuto, un momento di passione e un errore fatale – lasciare la fede nuziale nell’appartamento dell’amante. Ma il destino ha in serbo qualcosa di più oscuro: una misteriosa donna bionda, alta e implacabile, la aggredisce in ascensore, tagliandole la gola con una lama affilata. È un omicidio brutale, che dà il via a un gioco di specchi e identità.
Qui entra in scena Liz Blake (Nancy Allen, allora moglie di De Palma), una prostituta di alto bordo che, per un caso fortuito, diventa testimone del delitto. Da questo momento, Liz non è solo una spettatrice, ma una preda, braccata dalla stessa assassina. Ad aiutarla c’è Peter (Keith Gordon), il figlio adolescente di Kate, un giovane brillante e determinato a scoprire la verità. Insieme, i due scavano in un mistero che li porta a confrontarsi con Bobbi, un transessuale che sembra essere il colpevole, e con il dottor Elliott, il cui ruolo si rivela molto più complesso e disturbante di quanto sembri.
Non voglio spoilerare troppo, ma vi basti sapere che il finale è un vortice di rivelazioni che vi farà ripensare a tutto ciò che avete visto. De Palma gioca con la nostra percezione, usando il tema del doppio e dell’identità nascosta per costruire un thriller che è tanto psicologico quanto viscerale.
Un cocktail di stile e provocazione
Vestito per uccidere è un film che non passa inosservato, e non solo per la sua trama. De Palma, con il suo stile inconfondibile, rende ogni inquadratura un’opera d’arte. Dalle lunghe sequenze silenziose nel museo, che trasudano tensione erotica, alla scena dell’ascensore, carica di un’ansia claustrofobica, il regista dimostra una padronanza tecnica che rende omaggio a Psycho di Hitchcock, ma con un tocco moderno e audace. La telecamera di De Palma danza, seduce, spia, come se fosse un personaggio a sé.
E poi c’è l’elefante nella stanza: le scene di nudo e sesso, che all’epoca fecero scalpore. La sequenza iniziale sotto la doccia, con Kate che sembra abbandonarsi a fantasie sensuali, è stata tanto criticata quanto iconica. Curiosità: quella non è Angie Dickinson, ma Victoria Lynn, modella di Penthouse, chiamata a sostituirla per la scena. Questo dettaglio, insieme alla scelta di non mostrare mai esplicitamente alcune violenze, dimostra come De Palma giochi con l’illusione, lasciando che sia la nostra immaginazione a fare il lavoro sporco.
Un cast che brilla (e qualche retroscena succoso)
Il cast è un altro punto di forza. Angie Dickinson porta una vulnerabilità magnetica a Kate, rendendo il suo personaggio tragico e umano. Nancy Allen, nei panni di Liz, è un mix perfetto di cinismo e fragilità, una donna che lotta per sopravvivere in un mondo che la giudica. E poi c’è Michael Caine, che dona al dottor Elliott una calma inquietante, perfetta per il ruolo. Sapete che inizialmente il ruolo di Elliott era destinato a Sean Connery? L’ex 007 dovette rinunciare per conflitti di programmazione, lasciando a Caine l’opportunità di brillare in un personaggio che è tutto fuorché prevedibile.
Perché guardarlo oggi?
Vestito per uccidere non è solo un thriller, ma un’esperienza che sfida le convenzioni. Certo, alcune scelte – come la rappresentazione della transessualità, che oggi appare datata e problematica – riflettono il contesto degli anni ’80 e possono far storcere il naso. Ma il film resta un capolavoro di tensione e stile, capace di intrattenere e provocare. È il tipo di opera che ti fa venir voglia di discuterne con gli amici davanti a un bicchiere di vino: “Ma davvero ti aspettavi quel colpo di scena?”.
Se cercate un film che vi tenga col fiato sospeso, che vi faccia ridere nervosamente e che vi lasci con più domande che risposte, Vestito per uccidere è una scelta perfetta