Quando la prima edizione di Casa di foglie cominciò a circolare
negli Stati Uniti, affiorando a poco a poco su Internet, nessuno avrebbe
potuto immaginare il seguito di appassionati che avrebbe raccolto.
All’inizio tra i più giovani – musicisti, tatuatori, programmatori,
ecologisti, drogati di adrenalina –, poi presso un pubblico sempre più
ampio. Finché Stephen King, in una conversazione pubblicata sul «New
York Times Magazine», non indicò Casa di foglie come il Moby Dick
del genere horror. Un horror letterario che si tramuta in un attacco al
concetto stesso di «narrazione». Qualcun altro l’ha definita una storia
d’amore scritta da un semiologo, un mosaico narrativo in bilico tra la
suspense e un onirico viaggio nel subconscio. O ancora: una bizzarra
invenzione à la Pynchon, pervasa dall’ossessione linguistica di Nabokov e
mutevole come un borgesiano labirinto dell’irrealtà. Impossibile
inquadrare in una formula l’inquietante debutto di Mark Z. Danielewski, o
anche solo provare a ricostruirne la trama, punteggiata di citazioni,
digressioni erudite, immagini e appendici. La storia ruota intorno a un
misterioso manoscritto rinvenuto in un baule dopo la morte del suo
estensore, l’anziano Zampanò, e consiste nell’esplorazione di un film di
culto girato nella casa stregata di Ash Tree Lane in cui viveva la
famiglia del regista, Will Navidson, premio Pulitzer per la fotografia,
che finirà per svelare un abisso senza fine, spalancato su una tenebra
senziente e ferina, capace di inghiottire chiunque osi disturbarla.
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