C’è una nuova lingua, suona di dialetto. Inventata,
come il cosmo che racconta. Un titolo lungo, con un sapore fortemente e
volutamente retrò. C’è il cinema che disegna, nel pensiero dell’autore, la
figura di Don Fefè, “cuor contento e panza piena”. Don Felice, il nome vero,
nobile di Cipièrnola, incontrastato padrone di Palazzo Rizzo Torregiani
Cìmboli, in un Sud dove in corpo scorre il rosso intenso del Primitivo e
l’indolenza meridiana delle voglie.
L’inizio di una saga che potrebbe avere come interprete
il Mastroianni di “Divorzio all’italiana”. Impomatato, con la retina a tenere i
capelli ed il baffo in tiro. Con gli occhi semichiusi, il lungo bocchino e le
voglie mai dome.
Il Felice che Alemanno disegna è nostalgico ed
indolente, europeo e strapaesano, poeta e padrone, innamorato dell’odore delle
femmine e del teatro. Si ride con Don Fefè e si ride con Ciccillo, “devota”
spalla, servitore e inconsapevole cugino. Un narrare agile e intrigante
accompagna il lettore, lo conduce dentro un clima che scuce paradossi e trame
nel bilico di un tempo indeterminato dove il retaggio del passato fa il verso
al presente.
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