Ludwig Wittgenstein è considerato da molti, anche dal sottoscritto, il più grande filosofo di questo secolo. Le sue due grandi opere, Tractatus Logico-Philosophicus (1921) e Philosophical Investigations (pubblicate postume nel 1953) hanno molto plasmato i successivi sviluppi della filosofia, specialmente nella tradizione analitica. La sua personalità carismatica ha affascinato artisti, drammaturghi, poeti, romanzieri, musicisti e persino cineasti, tanto che la sua fama si è diffusa ben oltre i confini della vita accademica. Eppure, in un certo senso, il pensiero di Wittgenstein è stato poca cosa sulla vita intellettuale di questo secolo. Come lui stesso si rese conto, il suo stile di pensiero è in contrasto con lo stile che domina la nostra epoca attuale. Il suo lavoro si oppone, come disse una volta, "allo spirito che informa il vasto flusso di civiltà europea e americana in cui tutti noi ci troviamo". Quasi 50 anni dopo la sua morte, possiamo vedere, più chiaramente che mai, che la sensazione che stesse nuotando controcorrente fosse giustificata. Se volessimo dare una definizione per descrivere quest’approccio, potremmo chiamarlo "scientismo", ovvero l'idea che ogni domanda intelligibile abbia o una soluzione scientifica o nessuna soluzione. È contro questo punto di vista che Wittgenstein ci ha messo la faccia. Lo scientismo assume molte forme. Nelle discipline umanistiche, assume la forma di fingere che la filosofia, la letteratura, la storia, la musica e l'arte possano essere studiate come se fossero scienze, con i "ricercatori" costretti a precisare le loro "metodologie".
Nient’altro che una finzione che ha portato a enormi quantità di cattiva scrittura accademica, caratterizzata da teorie fasulle, specializzazioni spurie e lo sviluppo di vocabolari pseudo-tecnici. Wittgenstein avrebbe guardato a questi sviluppi e avrebbe pianto. Ci sono molte domande alle quali non abbiamo risposte scientifiche, non perché siano misteri profondi e impenetrabili, ma semplicemente perché non sono domande scientifiche. Queste includono domande sull'amore, l'arte, la storia, la cultura, la musica, tutte domande, infatti, che riguardano il tentativo di capire meglio noi stessi. Oggi è diffusa la sensazione che il grande scandalo dei nostri tempi sia la mancanza di una teoria scientifica della coscienza e della conoscenza. E quindi c'è un grande sforzo interdisciplinare, che coinvolge fisici, informatici, psicologi cognitivi e filosofi, per trovare risposte scientifiche sostenibili alle domande: cos'è la coscienza? Che cosa è il sé? Uno dei principali concorrenti in questo campo affollato è la teoria avanzata dal matematico Roger Penrose, secondo cui un flusso di coscienza è una sequenza orchestrata di eventi fisici quantistici che si verificano nel cervello. La teoria di Penrose è che un momento di coscienza è prodotto da una sub-proteina nel cervello chiamata tubulina. La teoria è, per stessa ammissione di Penrose, speculativa e sembra a molti stranamente inverosimile. Ma supponiamo di aver scoperto che la teoria di Penrose sia corretta, potremmo, di conseguenza, capire meglio noi stessi? Una teoria scientifica è l'unico tipo di comprensione? Bene, a questo punto ci si potrebbe chiedere, c’è dell’altro? La risposta di Wittgenstein a questo, penso, sia il suo più grande e più trascurato, risultato. Sebbene il pensiero di Wittgenstein abbia subito cambiamenti tra il suo lavoro iniziale e quello successivo, la sua opposizione allo scientismo era costante. La filosofia, scrive, "non è una teoria ma un'attività". Si sforza, non per la verità scientifica, ma per la chiarezza concettuale. Nel Tractatus, questa chiarezza è raggiunta attraverso una corretta comprensione della forma logica del linguaggio, che, una volta raggiunta, era destinata a rimanere inesprimibile, portando Wittgenstein a confrontare le proprie proposizioni filosofiche con una scala, che viene gettata via una volta che è stata usato per salire. Nella sua opera successiva, Wittgenstein abbandonò l'idea di forma logica e con essa la nozione di verità ineffabili. La differenza tra scienza e filosofia, secondo lui, è tra due forme distinte di comprensione: quella teorica e quella non teorica. La comprensione scientifica è data attraverso la costruzione e la verifica di ipotesi e teorie; la comprensione filosofica, d'altra parte, è decisamente non teorica. Quello che cerchiamo in filosofia è "la comprensione che consiste nel vedere le connessioni".
La comprensione non teorica è il tipo di comprensione che abbiamo quando diciamo di comprendere una poesia, un brano musicale, una persona o anche una frase. Prendiamo il caso di un bambino che impara la sua lingua madre. Quando inizia a capire cosa le viene detto, è perché ha formulato una teoria? Possiamo dire che se ci piace - e molti linguisti e psicologi hanno detto proprio questo - è un modo fuorviante di descrivere quello che sta succedendo. Il criterio che usiamo per dire che un bambino capisce ciò che gli viene detto è che si comporta in modo appropriato ovvero mostra di capire la frase "metti questo pezzo di carta nel cestino", ad esempio, obbedendo alle istruzioni. Un altro esempio vicino al cuore della riflessione di Wittgenstein è quello della comprensione della musica. Come si dimostra la comprensione di un brano musicale? Beh, forse suonandolo in modo espressivo o usando il giusto tipo di metafore per descriverlo. E come si spiega che cos'è il "suonare espressivo"? Ciò di cui ha bisogno, dice Wittgenstein, è "una cultura": "Se qualcuno è cresciuto in una particolare cultura e poi reagisce alla musica in questo modo, puoi insegnargli l'uso della frase 'esecuzione espressiva. Ciò che è vero per la musica vale anche per il linguaggio ordinario. "Capire una frase", dice Wittgenstein in Philosophical Investigations, "è più simile alla comprensione di un tema musicale di quanto si possa pensare". Anche la comprensione di una frase richiede la partecipazione alla forma bio/ontologica dell’essente, ed è in questo che consiste il “gioco linguistico” a cui appartiene. Il motivo per cui i computer non capiscono le frasi che elaborano non è che mancano di una complessità neuronale sufficiente, ma che non sono, e non possono essere, partecipanti alla cultura a cui appartengono le frasi. Una frase non acquista significato attraverso la correlazione, uno a uno, delle sue parole con gli oggetti nel mondo. Essa acquista significato attraverso l'uso che ne viene fatto nella vita comunitaria degli esseri umani. Tutto questo può sembrare banalmente vero. Lo stesso Wittgenstein ha descritto il suo lavoro come una "sinossi di banalità". Ma quando pensiamo filosoficamente tendiamo a dimenticare queste banalità e finiamo così nella confusione, immaginando, ad esempio, che ci capiremo meglio se studiamo il comportamento quantistico delle particelle subatomiche all'interno del nostro cervello. Una credenza analoga alla convinzione che uno studio dell'acustica ci aiuterà a comprendere la musica di Beethoven. Perché abbiamo bisogno di ricordare le banalità? Perché siamo stregati al solo pensare che se ci manca una teoria scientifica di qualcosa, ci manca la sua comprensione.
Una delle differenze cruciali tra il metodo della scienza e la comprensione non teorica esemplificata nella musica, nell'arte, nella filosofia e nella vita ordinaria, è che la scienza mira a un livello di generalità che sfugge necessariamente a queste altre forme di comprensione. Questo è il motivo per cui la comprensione delle persone non può mai essere una scienza. Capire una persona significa essere in grado di dire, ad esempio, se intende o meno quello che dice, se le sue espressioni di sentimento sono autentiche o finte. E come si acquisisce questo tipo di comprensione? Wittgenstein solleva questa domanda alla fine delle Ricerche filosofiche. "Esiste", chiede, "una cosa come il 'giudizio di esperti' sulla genuinità delle espressioni dei sentimenti?" - Sì, risponde, c'è. Ma l'evidenza su cui si basano tali giudizi specialistici sulle persone è "imponderabile", è resistente alla formulazione generale caratteristica della scienza. “Le prove inoppugnabili”, scrive Wittgenstein, “includono sottigliezze di sguardo, di gesto, di tono. Posso riconoscere uno sguardo sincero e amorevole, distinguerlo da uno finto ... Ma potrei essere del tutto incapace di descrivere la differenza ... Se fossi un pittore di grande talento, potrei plausibilmente rappresentare lo sguardo genuino e simulato nelle immagini. "
Ma il fatto è che abbiamo a che fare con questioni imponderabili che non dovrebbero indurci a credere che tutte le pretese di comprendere le persone siano false. Quando una volta Wittgenstein stava discutendo del suo romanzo preferito, I fratelli Karamazov, con Maurice Drury, Drury disse che trovava impressionante il personaggio di padre Zossima. Di Zossima, Dostoevskij scrive: "Si diceva che ... avesse assorbito così tanti segreti, dolori e confessioni nella sua anima che alla fine aveva acquisito una percezione così sottile che poteva distinguere al primo sguardo dal volto di un straniero per cosa era venuto, cosa voleva e che tipo di tormento gli tormentava la coscienza. " "Sì", disse Wittgenstein, "ci sono state davvero persone così, che potevano vedere direttamente nelle anime delle altre persone e consigliarle".
Ma il fatto che abbiamo a che fare con cose imponderabili non dovrebbe indurci a credere che tutte le pretese di comprendere le persone siano false. "Un processo interiore ha bisogno di criteri esteriori", recita uno degli aforismi più spesso citati del Nostro. Meno spesso ci si rende conto dell'enfasi che Wittgenstein poneva sulla necessità di una percezione sensibile di quei “criteri esteriori” in tutta la loro imponderabilità. E dove si trova una sensibilità così acuta? Non, tipicamente, nelle opere degli psicologi, ma in quelle dei grandi artisti, musicisti e romanzieri. In un momento come questo, quando le discipline umanistiche sono istituzionalmente obbligate a fingere di essere scienze, abbiamo bisogno più che mai delle lezioni sulla comprensione che Wittgenstein - e le arti – hanno il dovere di insegnarci.