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giovedì 8 maggio 2025

"Crocodile" Dundee: Un’avventura tra la giungla vera e quella urbana che ha conquistato il mondo

 Se c’è un film che incarna alla perfezione lo spirito degli anni ’80, con il suo mix di umorismo spensierato, romanticismo semplice e un pizzico di esotismo, quello è “Crocodile” Dundee. Uscito nel 1986, diretto da Peter Faiman e scritto da Paul Hogan (che interpreta anche il protagonista), questo film australiano è molto più di una commedia romantica: è un viaggio culturale, un clash tra mondi opposti e una celebrazione dell’istinto umano che trionfa sulle convenzioni. Con il suo irresistibile Mick Dundee, il cacciatore di coccodrilli dal cuore d’oro, il film ha ridefinito il concetto di “fish out of water” e ha portato l’Australia nell’immaginario collettivo globale. Preparatevi a un tuffo nella nostalgia, con un coltellaccio da caccia in una mano e un sorriso sornione nell’altra.

La genesi di un mito: Mick Dundee e l’Australia degli anni ’80
La storia di “Crocodile” Dundee nasce da un’idea tanto semplice quanto geniale: cosa succede quando un rude avventuriero australiano, abituato a combattere coccodrilli e a vivere in un villaggio sperduto, viene catapultato nella frenesia di New York? Paul Hogan, già una star in Australia grazie al suo show televisivo, scrive il soggetto ispirandosi a figure leggendarie del folklore aussie, come i bushmen e i cacciatori dell’outback. Mick Dundee è un personaggio larger-than-life: tamarro ma affascinante, rozzo ma saggio, con un’etica che sembra venire da un altro tempo. È l’emblema di un’Australia ancora selvaggia, lontana dagli stereotipi moderni di Sydney e delle sue spiagge.
Il film si apre con Sue Charlton (Linda Kozlowski), una giornalista americana in cerca di uno scoop. Durante un viaggio in Australia, si imbatte in Mick, che vive a Giringiro Creek, un puntino sulla mappa con “50 anime, forse meno”. Colpita dal suo carisma e dalle sue storie (tipo quella volta che un coccodrillo gli ha quasi staccato una gamba), Sue decide di portarlo a New York per un articolo sulla sua rivista. Da qui parte l’avventura, con Mick che affronta la metropoli con la stessa nonchalance con cui doma rettili. Il contrasto tra la sua semplicità e l’arroganza urbana è il cuore pulsante del film.
Un clash culturale che fa ridere e sognare
“Crocodile” Dundee funziona perché non si prende mai troppo sul serio. La sceneggiatura, firmata da Hogan insieme a Ken Shadie e John Cornell, è un susseguirsi di gag che giocano sul divario culturale. Mick, con il suo cappello di pelle, il gilet di coccodrillo e quel coltellaccio che sembra uscito da un film di Rambo, è un alieno a New York. Non capisce gli ascensori, scambia un bidet per una fontanella e, in una delle scene più iconiche, risponde a un tentativo di rapina con un “Questo è un coltello!” che è entrato nella storia del cinema. Eppure, la sua ingenuità è disarmante. Quando scopre l’idromassaggio o si ritrova a chiacchierare con un tassista, Mick non è mai ridicolo: è autentico.
Il film brilla anche nei momenti più sottili. Mick non è solo un “selvaggio” in un mondo civilizzato; è un uomo che vive secondo un codice morale semplice ma ferreo. Tratta tutti con rispetto, dai baristi ai senzatetto, e il suo charme conquista anche i newyorkesi più snob. Questo lo rende un eroe universale, capace di parlare tanto agli spettatori australiani, orgogliosi della loro identità, quanto a quelli americani, affascinati da un personaggio che sfida le loro convenzioni.
Una storia d’amore che scalda il cuore
Al centro di “Crocodile” Dundee c’è la storia d’amore tra Mick e Sue, che si sviluppa con una naturalezza rara per una commedia degli anni ’80. Linda Kozlowski, al suo debutto cinematografico, porta sullo schermo una Sue che è indipendente ma non fredda, curiosa ma non ingenua. La chimica con Hogan è palpabile, forse perché i due si innamorarono davvero durante le riprese (si sposarono nel 1990). La loro relazione non è solo un espediente narrativo: è il ponte tra due mondi. Quando Mick, inizialmente spaesato, comincia ad ambientarsi a New York, è Sue a guidarlo. E quando lei si ritrova a confrontarsi con i suoi pregiudizi, è Mick a insegnarle che la vera forza sta nella semplicità.
Il film evita i cliché romantici più stucchevoli. Non ci sono grandi dichiarazioni o gesti melodrammatici fino alla scena finale, che però arriva come una liberazione. Senza spoiler, diciamo solo che il finale nella metropolitana di New York è un momento di pura gioia cinematografica, con un tocco di caos che rispecchia perfettamente il tono del film.
Lo stile e l’atmosfera: un viaggio negli anni ’80
Dal punto di vista tecnico, “Crocodile” Dundee è un prodotto del suo tempo, ma invecchia sorprendentemente bene. La regia di Peter Faiman è funzionale, con una fotografia che esalta i paesaggi mozzafiato dell’outback australiano e il grigiore scintillante di New York. La colonna sonora, con il tema “Down Under” dei Men at Work, è un inno all’identità australiana, ma anche un earworm che ti resta in testa per giorni. Ogni volta che parte quel flauto, sei già lì con Mick, a bere una birra in un pub polveroso o a passeggiare tra i grattacieli.
Il film si permette anche qualche digressione cinefila. In una scena, mentre Mick si rilassa in hotel, sullo schermo passa Major Dundee di Sam Peckinpah, un western che sembra quasi un omaggio ironico al nome del protagonista. Non è un caso: il film gioca con l’idea di Mick come un cowboy moderno, un eroe fuori dal tempo che porta il suo “wild west” australiano nel cuore della modernità.
Un fenomeno globale e il suo lascito
“Crocodile” Dundee fu un successo stratosferico. Costato meno di 10 milioni di dollari, ne incassò oltre 320 in tutto il mondo, diventando il secondo film più visto del 1986 (dietro solo a Top Gun). In Australia, fu un fenomeno culturale, celebrando un’immagine di mascolinità che era al tempo stesso ironica e orgogliosa. Negli Stati Uniti, il titolo con le virgolette (“Crocodile” Dundee) fu una trovata di marketing per chiarire che no, non era un film su un coccodrillo parlante. E sì, questo la dice lunga sul pubblico dell’epoca.
Il film generò due sequel (Crocodile Dundee II nel 1988 e Crocodile Dundee in Los Angeles nel 2001), ma nessuno riuscì a replicare la magia dell’originale. Mick Dundee divenne un’icona, tanto che Paul Hogan fu nominato per un Golden Globe e il film ottenne una candidatura all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale. Ancora oggi, il personaggio è sinonimo di Australia, tanto quanto i canguri o l’Opera House.
Perché guardarlo oggi?
In un’epoca di blockbuster ipercomplessi e narrazioni ciniche, “Crocodile” Dundee è un respiro d’aria fresca. È un film che ti ricorda il piacere di ridere senza malizia, di innamorarti senza complicazioni, di credere che un uomo con un coltello e un sorriso possa conquistare il mondo. È anche una riflessione sottile sulla globalizzazione: Mick non cambia per adattarsi a New York, ma porta New York a cambiare per lui. In un certo senso, è una lezione di autenticità.
Se amate le commedie romantiche con un pizzico di avventura, o se semplicemente volete viaggiare indietro nel tempo, “Crocodile” Dundee è una scelta perfetta. Mettetelo su, prendete una birra (o un succo, se siete tipi da Sue) e lasciatevi trasportare. E se qualcuno vi minaccia con un coltellino, beh, sapete cosa dire: “Questo non è un coltello… QUESTO è un coltello!”.





mercoledì 7 maggio 2025

Forrest Gump (1994) FULL REVIEW | Choice or Destiny?

Grosso Guaio a Chinatown: Il Cult Anarchico di John Carpenter che Non Smette di Sorprendere

 Se c’è un film che incarna lo spirito ribelle, caotico e geniale di John Carpenter, quello è Grosso Guaio a Chinatown (Big Trouble in Little China, 1986). Un cocktail esplosivo di action, commedia, fantasy e soprannaturale, questo film è un viaggio sfrenato nella San Francisco di Chinatown, dove un camionista spaccone, un’antica maledizione e un gruppo di eroi improbabili si scontrano in un’epica battaglia tra bene e male. Con Kurt Russell al timone e Carpenter dietro la macchina da presa, il risultato è un cult che, quasi quarant’anni dopo, continua a conquistare fan con il suo mix di ironia, esagerazione e cuore.

Un Eroe Atipico: Jack Burton
Al centro della storia c’è Jack Burton, interpretato da un Kurt Russell in stato di grazia. Jack è un camionista che parla come John Wayne, si crede l’eroe della situazione, ma finisce spesso per essere più un pasticcione che un salvatore. La sua energia è contagiosa: con il suo gilet smanicato, il suo atteggiamento da “faccio tutto io” e battute come “Non è il momento di farsi prendere dal panico… questo è il momento di farsi prendere dal panico!”, Jack è l’anti-eroe perfetto. Non è il classico protagonista che risolve tutto con un pugno ben assestato; è un tizio qualunque, con un ego smisurato e un talento per cacciarsi nei guai. E questo è il primo colpo di genio di Carpenter: in un’epoca dominata da macho come Stallone e Schwarzenegger, Jack Burton è un eroe che vince (quasi) per caso.
Una Trama Folle e Affascinante
La trama di Grosso Guaio a Chinatown è un delirio meraviglioso. Jack si trova a Chinatown per aiutare il suo amico Wang Chi (Dennis Dun, carismatico e perfetto nel ruolo) a recuperare la fidanzata Miao Yin (Suzee Pai) all’aeroporto. Ma, come in ogni buon film di Carpenter, le cose si complicano in fretta. Miao Yin, con i suoi rari occhi verdi, è il bersaglio di Lo Pan (James Hong, semplicemente iconico), un antico stregone condannato a un’esistenza spettrale da una maledizione millenaria. Per spezzarla, Lo Pan deve sposare (e poi sacrificare) una donna dagli occhi verdi. E quando anche Gracie Law (Kim Cattrall), un’avvocatessa battagliera con lo stesso tratto raro, finisce nel mirino del villain, il caos è servito.
A complicare le cose ci sono le Tre Furie – Tuono, Pioggia e Fulmine – un trio di scagnozzi sovrannaturali che sembrano usciti da un videogioco anni ’80. Con poteri che vanno da fulmini a esplosioni, sono il perfetto mix di kitsch e minaccia. La battaglia che ne segue è un’escalation di combattimenti kung-fu, magia nera, esplosioni e dialoghi al fulmicotone, il tutto condito dalla regia di Carpenter, che alterna tensione a momenti di pura comicità.
Lo Spirito di Carpenter: Sovvertire con Stile
Carpenter non si limita a raccontare una storia: la decostruisce. Grosso Guaio a Chinatown è un omaggio ai film di arti marziali, ai B-movie e alla cultura pop orientale, ma con un twist. Invece di un eroe occidentale che “salva” la comunità asiatica, come ci si potrebbe aspettare da un film degli anni ’80, Jack è spesso un pesce fuor d’acqua, mentre Wang e i suoi alleati cinesi sono i veri protagonisti dell’azione. Questo sovvertimento degli stereotipi, unito al tono autoironico, rende il film sorprendentemente moderno.
E poi c’è Lo Pan. James Hong regala una performance che è allo stesso tempo spaventosa e esilarante. Lo Pan è un cattivo larger-than-life, con monologhi che oscillano tra il grottesco e il poetico. La sua presenza magnetica è il collante che tiene insieme il caos narrativo, trasformando ogni scena in un piccolo spettacolo.
Un Lieto Fine… o Quasi
Uno degli aspetti più affascinanti del film è il suo rifiuto di un lieto fine convenzionale. Sì, Wang e Miao Yin si riuniscono, ma Jack e Gracie? Niente da fare. In un momento di rara introspezione, i due riconoscono di essere spiriti troppo liberi per incastrarsi in una relazione. Jack risale sul suo camion, pronto per nuove avventure, ignaro del mostro che si nasconde nel retro – un cliffhanger che lascia spazio all’immaginazione e che grida “cult” da ogni fotogramma.
Perché Guardarlo Oggi?
Grosso Guaio a Chinatown è invecchiato come un buon vino. La sua estetica anni ’80, con scenografie al neon e costumi esagerati, è un tuffo nostalgico, ma il suo umorismo e la sua energia lo rendono timeless. È il tipo di film che puoi guardare con gli amici per ridere delle battute di Jack, oppure analizzare per i suoi sottotesti culturali. E, diciamocelo, chi non vuole vedere Kurt Russell affrontare un demone cinese con una pistola e un coltello da tasca?
Se ami i film che non si prendono troppo sul serio, ma che hanno un cuore grande e un’anima ribelle, Grosso Guaio a Chinatown è una tappa obbligata. Accendi il tuo lettore, preparati a un viaggio folle e, come direbbe Jack, “Tieni gli occhi aperti, perché non si sa mai cosa può succedere”.



"Crocodile" Dundee: Un’avventura tra la giungla vera e quella urbana che ha conquistato il mondo

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