Pensate ad un angolo di Puglia, lontano dai riflettori delle spiagge affollate e dai vicoli bianchi di Ostuni, dove il tempo sembra essersi fermato e un uomo, con le sue mani ruvide e un’immaginazione senza confini, ha dato vita a un mondo unico. Sto parlando di San Cesario di Lecce, un piccolo comune a pochi passi dal capoluogo salentino, e di Ezechiele Leandro, un artista che definire "straordinario" è quasi riduttivo. La sua storia e il suo capolavoro, il Santuario della Pazienza, sono stati un viaggio nell’arte contemporanea pugliese che merita di essere raccontato, con entusiasmo e un pizzico di stupore.
Leandro nasce a Lequile nel 1905, in un contesto umile e travagliato: orfano, autodidatta, un uomo che si forma tra i pascoli, i cantieri e le miniere d’Africa e Germania, prima di stabilirsi a San Cesario. Qui, in via Cerundolo, costruisce non solo una casa, ma un universo artistico che sfugge a ogni catalogazione. Pittura, disegno, scultura, collage, assemblaggi, installazioni: il suo linguaggio è un’esplosione eclettica, un caos organizzato che lui stesso definiva "primitivo". E aveva ragione. C’è qualcosa di ancestrale nelle sue opere, un ritorno alle origini dell’espressione umana che però dialoga, quasi inconsapevolmente, con le avanguardie del Novecento.
Pensate a Duchamp e ai suoi ready-made: Leandro, con la stessa audacia, raccoglie materiali di scarto – cocci, ferro, copertoni, piastrelle – e li trasforma in arte, dando nuova vita a ciò che la società ha dimenticato. Oppure a Picasso, con quel suo primitivismo cubista che scompone e ricompone la realtà: anche Leandro guarda al mondo con occhi che vedono oltre, frammentando e ricostruendo l’esistenza in simboli e allegorie. Ma non si ferma qui. La sua arte è mutante, sfuggente, un mix di sacro e profano, di visioni apocalittiche e riflessioni sull’uomo, che lo rende un outsider autentico, lontano dalle mode e dalle correnti ufficiali.
Il Santuario della Pazienza, inaugurato nel 1975 dopo anni di lavoro solitario, è stato il cuore pulsante di questa ricerca. Situato nel giardino della sua casa-museo, era a tutti gli effetti un’opera ambientale di oltre 700 metri quadrati, un labirinto di oltre 200 sculture in cemento e materiali riciclati che rappresentano scene bibliche – l’Apocalisse, la Passione di Cristo, il Giudizio Universale – ma anche figure fantastiche nate dalla sua immaginazione. Entrarci era come immergersi in un sogno febbrile: statue antropomorfe, mosaici irregolari, grovigli di forme che sembrano pulsare di vita. Un luogo che ha richiesto pazienza, sì, per essere compreso, ma che ha ripagato con un’esperienza sensoriale e spirituale unica.
Come appassionato di storia dell’arte contemporanea pugliese, non posso non emozionarmi davanti a un artista così libero. Leandro non aveva studiato nelle accademie, non frequentava gallerie alla moda, eppure il suo talento ha attraversato i confini, arrivando a esposizioni internazionali negli anni ’70. Tuttavia, a San Cesario, la sua comunità lo guardava con sospetto, lo considerava un eccentrico, quasi un folle. Le sue sculture, definite “mostri” da alcuni, sono state persino oggetto di vandalismi, tanto da spingerlo a erigere un muro di cinta per proteggerle. Oggi, quel muro può essere inglobato in un immaginario collettivo tanto da farne un simbolo di resistenza,
Cosa rende Leandro così speciale per la Puglia e per l’arte contemporanea? La sua capacità di trasformare il margine in centro, il rifiuto in bellezza, il silenzio in un grido universale. In un’epoca in cui l’arte spesso si piega al mercato, lui ci ricorda che creare è un atto di necessità, non di convenienza.
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