Un film che riesce a scuoterti l’anima e allo stesso tempo accenderti un sorriso di speranza, è senza dubbio Il mio piede sinistro (My Left Foot, 1989), diretto da Jim Sheridan. Tratto dall’autobiografia di Christy Brown, questo gioiello cinematografico non è solo una storia vera, ma un viaggio intimo e potente che dimostra quanto la volontà umana possa superare ostacoli apparentemente insormontabili. E, diciamocelo, è anche la consacrazione di un Daniel Day-Lewis semplicemente monumentale, che con questo ruolo non ha solo vinto un Oscar, ma ha ridefinito il concetto di immedesimazione attoriale.
Donate
venerdì 11 aprile 2025
Il mio piede sinistro ... (My Left Foot, 1989)
Immaginatevi l’Irlanda degli anni ‘30, un’epoca dura, grigia, segnata dalla povertà. La famiglia Brown, già numerosa e chiassosa, accoglie un nuovo arrivato: Christy. Ma la gioia si trasforma presto in preoccupazione quando una paralisi cerebrale colpisce il neonato nei primi giorni di vita, lasciandolo immobile e muto. I medici sono pessimisti, pronosticano una vita breve e priva di senso. Eppure, i Brown non si arrendono. La madre, in particolare, diventa il pilastro di Christy, una donna che incarna quell’amore ostinato e silenzioso che non ha bisogno di parole per farsi sentire. Contro ogni previsione, Christy non solo sopravvive, ma cresce, trovando un modo tutto suo per comunicare col mondo: il suo piede sinistro.
Sì, avete letto bene. Con il solo piede sinistro – l’unica parte del corpo che riesce a controllare – Christy impara a scrivere, a dipingere, a esprimersi. È un’immagine che colpisce dritto al cuore: un uomo intrappolato in un corpo ribelle che, con un semplice arto, trasforma la sua prigione in una tela, in un foglio di carta, in un mezzo per urlare al mondo chi è davvero. E non si limita a sopravvivere: Christy Brown diventa un artista, un poeta, un uomo capace di emozionare. Ma non fraintendetemi, questo non è un film che dipinge tutto rose e fiori. Ci sono momenti crudi, di rabbia pura, di sconforto che lo spingono a sfiorare il baratro del suicidio. È un percorso umano, non un’agiografia.
E poi c’è l’amore. Mary, l’infermiera che entra nella sua vita, non è solo un supporto pratico: è la scintilla che lo spinge a raccontare la sua storia al mondo, a mettere nero su bianco quel My Left Foot che diventerà il suo lascito. La loro relazione è delicata, complessa, mai stucchevole, e aggiunge un ulteriore strato di profondità a un film che già trabocca di emozioni.
Ma parliamoci chiaro: se Il mio piede sinistro è entrato nella storia del cinema, gran parte del merito va a Daniel Day-Lewis. La sua performance è qualcosa di trascendentale. Non si limita a interpretare Christy Brown, lo diventa. Si racconta che, per prepararsi, Day-Lewis abbia passato ore su una sedia a rotelle, al punto da rompersi due costole per la postura innaturale che manteneva. Alcuni giorni era così immerso nel personaggio che la troupe doveva imboccarlo perché lui, semplicemente, non usciva dal ruolo. È il metodo attoriale portato all’estremo, ma il risultato sullo schermo è pura magia. Ogni spasmo, ogni sguardo, ogni movimento del piede sinistro trasuda autenticità. Non sorprende che quell’Oscar del 1990 sia finito nelle sue mani: era inevitabile.
Dal punto di vista tecnico, il film non urla per farsi notare. La regia di Sheridan è sobria, quasi documentaristica, e lascia spazio ai personaggi e alla storia. La fotografia cattura l’atmosfera cupa e ruvida dell’Irlanda operaia, ma sa accendersi di calore nei momenti di intimità familiare. La sceneggiatura, poi, è un equilibrio perfetto tra dramma e spiragli di luce, con dialoghi che suonano veri, vissuti.
Il mio piede sinistro non è solo un film da vedere: è un’esperienza da vivere. È una lezione di resilienza, un inno alla creatività che nasce dalle difficoltà, un promemoria che il talento può fiorire ovunque, anche in un corpo che il mondo considera “rotto”. E se siete appassionati di cinema, è anche una masterclass di recitazione che vi farà venire voglia di riguardarlo subito dopo i titoli di coda. Insomma, se non l’avete ancora visto, che aspettate? Preparate i fazzoletti, ma anche un sorriso: Christy Brown vi conquisterà, un colpo di piede alla volta. #MyLeftFoot
giovedì 10 aprile 2025
La mia Africa
Se penso a un film che riesce a catturare l’anima selvaggia di un continente e il battito del cuore di chi lo abita, quello è La mia Africa (Out of Africa, 1985), diretto da Sydney Pollack. Tratto dal memoir di Karen Blixen, questo classico racconta una storia d’amore e di scoperta, intrecciata a un ritratto mozzafiato del Kenya coloniale. Ma attenzione: non è solo un inno alla bellezza africana o un melodramma romantico. È un film che, pur brillando per la sua estetica, lascia qualche domanda sospesa, come un tramonto che svanisce troppo in fretta.
Immaginatevi Karen Blixen (Meryl Streep), una donna danese dal carattere indomito, che sbarca in Kenya all’inizio del XX secolo per sposare Bror (Klaus Maria Brandauer), un barone svedese tanto affascinante quanto inaffidabile. Il matrimonio è un contratto: lei porta i soldi, lui il titolo nobiliare. Ma fin dal primo istante, Karen capisce che non è l’uomo rozzo e indolente a conquistarla. È l’Africa stessa: i suoi paesaggi sconfinati, i tramonti che sembrano dipinti a mano, la vitalità della sua gente. E così, mentre il marito si perde tra safari e distrazioni, lei trasforma la loro fattoria in un’oasi di lavoro e passione, un simbolo della sua ribellione silenziosa.
Poi arriva Denys Finch Hatton (Robert Redford), un cacciatore dallo spirito libero, e tra loro nasce una storia d’amore che è tanto intensa quanto fragile. Non è la classica favola romantica: Denys ama la sua indipendenza, Karen il suo sogno africano. Funziona, finché non smette di funzionare. La tragedia colpisce quando l’aereo di Denys precipita, lasciandola sola con i ricordi e una fattoria che presto perderà. È un finale che ti stringe il cuore, ma che forse non esplode come potrebbe.
E qui sta il punto: La mia Africa è un film che vive della sua fotografia spettacolare – non per niente ha vinto sette Oscar, tra cui Miglior Film e Miglior Fotografia. Quelle distese infinite, quei colori caldi, quel senso di vastità ti fanno quasi sentire l’odore della terra rossa. Ma la sceneggiatura? Non sempre regge il passo. Redford e Streep sono magnetici, eppure i loro personaggi sembrano sfiorarsi senza mai davvero toccarsi fino in fondo. E se due giganti come loro non hanno portato a casa una statuetta, forse è perché il film manca di quel guizzo emotivo che ti inchioda alla sedia.
Curiosità per i cinefili: sapevate che i leoni del film erano “americani”? Le leggi keniote vietavano l’uso di animali locali addestrati, e così sono stati importati dagli USA. In una scena, uno di questi felini è quasi sfuggito al controllo – Meryl Streep ha rischiato grosso, altro che Oscar postumo! E ancora: il ruolo di Karen doveva essere di Katharine Hepburn, ma alla fine è andata alla Streep, che ha dato al personaggio un’intensità unica, con quel suo accento danese che è pura magia.
Insomma, La mia Africa è un’esperienza visiva che ti rapisce, un viaggio che vale la pena fare per i paesaggi e per il talento sullo schermo. Ma se cercate una storia che vi scuota l’anima, potreste restare con un po’ di amaro in bocca. È un classico imperfetto, come un amore che brilla ma non dura
Iscriviti a:
Post (Atom)