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lunedì 7 aprile 2025

A spasso con Daisy (Driving Miss Daisy)

Atlanta, 1948. Le strade polverose, il caldo che appiccica la camicia alla pelle, e una vedova ebrea dal carattere impossibile, Daisy Werthan, che si ritrova senza il suo bene più prezioso: la libertà di guidare. Poi c’è Hoke Colburn, un autista di colore paziente e ironico, che entra nella sua vita quasi come un intruso, ma finisce per diventarne il pilastro. A spasso con Daisy (in originale Driving Miss Daisy) non è solo un film: è un piccolo gioiello che racconta come due persone, apparentemente agli antipodi, possano intrecciare le loro vite fino a creare un legame indistruttibile. E sullo sfondo? Un’America che cambia, tra segregazione razziale e barlumi di speranza.
Tratto da un’opera teatrale vincitrice del Pulitzer, il film diretto da Bruce Beresford nel 1989 è una di quelle storie che ti entrano dentro piano, senza fretta, proprio come il rapporto tra Daisy (Jessica Tandy) e Hoke (Morgan Freeman). All’inizio, lei è una donna burbera, orgogliosa, che non vuole ammettere di aver bisogno di aiuto. Lui, invece, è un uomo semplice, con un sorriso sornione e una pazienza che sembra infinita. Tra battibecchi e frecciatine – Daisy che lo accusa di tutto, Hoke che risponde con un’ironia disarmante – si dipana una relazione che evolve da un freddo “datore di lavoro-dipendente” a una profonda amicizia. È un crescendo emotivo che ti cattura, perché è reale: non ci sono grandi gesti eroici, ma piccoli momenti di umanità.
E poi c’è il contesto. Il film non sbatte in faccia il razzismo dell’epoca, ma lo mostra con tocchi sottili: un posto negato a tavola, un insulto velato, un’auto della polizia che scruta Hoke con sospetto. Eppure, in questo microcosmo di due persone, il pregiudizio si sgretola. Quando Hoke diventa cuoco, giardiniere e infine confidente di Daisy dopo la morte della governante, capisci che il loro legame va oltre le barriere sociali. Il finale, con lui che le tiene la mano a 94 anni mentre lei si spegne, è un pugno al cuore. Preparate i fazzoletti, perché è impossibile restare indifferenti.
Jessica Tandy è magistrale: la sua Daisy è un mix di fragilità nascosta e testardaggine che ti fa venir voglia di abbracciarla e rimproverarla allo stesso tempo. Ha vinto l’Oscar come miglior attrice, e se lo merita tutto. Morgan Freeman, invece, è la vera anima del film. Con quel suo modo di fare calmo e profondo, dà a Hoke una dignità che buca lo schermo. Non avergli dato l’Oscar è un’ingiustizia che ancora brucia – sì, si è rifatto anni dopo con Million Dollar Baby, ma qui era già un gigante, anche se Hollywood non lo aveva ancora capito.
Con 4 Oscar (miglior film, attrice protagonista, sceneggiatura adattata e trucco), A spasso con Daisy è un classico in stile grande Hollywood: elegante, ben scritto, con una regia che lascia spazio agli attori e una storia che ti scalda il cuore. Non è un film d’azione o di effetti speciali, ma di quelli che ti fanno riflettere su cosa significhi davvero connettersi con qualcuno. È un viaggio lento, come una passeggiata in macchina su una strada di campagna, ma alla fine ti rendi conto che ne è valsa la pena.
Se amate il cinema che parla di vita , di emozioni e di storia, questo è un must.



domenica 6 aprile 2025

TOMMY CASH - UNTZ UNTZ (censored version)

Figli di un Dio Minore (Children of a Lesser God, 1986)

 Se c’è un film che sa parlare senza bisogno di parole, quello è Figli di un Dio Minore (Children of a Lesser God, 1986), diretto da Randa Haines. Questa pellicola non è solo un viaggio nella complessità della comunicazione umana, ma anche una storia d’amore che sfida barriere, pregiudizi e paure. Preparatevi a un’esperienza che vi farà riflettere su cosa significhi davvero ascoltare – e farsi ascoltare.

Pensate dunque a James Leeds (William Hurt), un insegnante brillante e anticonformista, che arriva in un istituto per audiolesi con un fuoco negli occhi e un metodo tutto suo. È uno di quei personaggi che ti conquistano subito: determinato, empatico, ma con quel pizzico di arroganza che lo rende umano. Poi c’è Sarah (Marlee Matlin), una giovane donna sordomuta dalla nascita, che lavora come custode nella stessa scuola dove un tempo è stata studentessa. Non è una vittima, attenzione: Sarah è un vulcano di intelligenza e orgoglio, ma anche di ferite profonde. Il suo silenzio non è solo fisico, è una corazza contro un mondo che teme possa giudicarla.
La trama si dipana come un dialogo tra due anime testarde. James vede in Sarah un potenziale inespresso e vuole “salvarla”, insegnandole a parlare e a integrarsi. Ma lei non cerca un salvatore: vuole essere accettata per ciò che è, non trasformata in ciò che gli altri si aspettano. È uno scontro di volontà che si trasforma in amore – un amore complicato, fatto di gesti, sguardi e silenzi carichi di significato. La scena in cui James cerca di insegnarle a parlare, e lei si ribella con una forza che ti spacca il cuore, è da manuale: ti fa capire che il vero handicap non è la sordità, ma l’incapacità di comprendersi.
William Hurt è semplicemente magnetico. La sua interpretazione è un equilibrio perfetto tra dolcezza e frustrazione, e regge il confronto con una Marlee Matlin che, al suo debutto, ruba la scena. Marlee, sordomuta nella vita reale, porta sullo schermo una verità cruda e commovente che le è valsa un Oscar – meritatissimo – come Miglior Attrice. È impossibile non innamorarsi del suo coraggio, della sua vulnerabilità e di quel sorriso che illumina anche i momenti più bui.
Il film non è perfetto, sia chiaro. A volte scivola in un romanticismo un po’ troppo idealizzato, e il ritmo può sembrare lento per chi cerca azione. Ma è proprio in quella lentezza che si nasconde la sua forza: ti costringe a fermarti, a sentire, a guardare oltre le parole. La regia di Haines, sobria ma intensa, e la colonna sonora di Michael Convertino amplificano l’atmosfera, rendendo ogni scena un piccolo quadro emotivo.
Figli di un Dio Minore è un film che parla di accettazione – di sé stessi e degli altri – e di come l’amore possa nascere anche tra silenzi apparentemente insormontabili. Se amate il cinema che lascia un segno, che vi fa ridere, piangere e pensare nello spazio di due ore, questo è un must. E se non l’avete ancora visto, beh, che aspettate? È una di quelle storie che ti ricorda perché il cinema è arte.

venerdì 4 aprile 2025

De Une place au soleil à The Kid : Léa Seydoux nous présente ses films coups de coeur | Vidéo Club

Amadeus .... un capolavoro che ha fatto incetta di Oscar!

 Pensate a una Vienna del tardo Settecento: carrozze che sferragliano sulle strade acciottolate, parrucche bianche che ondeggiano nei saloni illuminati da candelabri, e una musica così divina da sembrare un dono degli dèi. Poi, immaginate un uomo che quella musica la crea, un genio sregolato, un po’ folle, un po’ bambino, che ride sguaiatamente e si prende gioco di tutti. Questo è Amadeus, il film di Miloš Forman del 1984 che non è solo un ritratto di Wolfgang Amadeus Mozart, ma una riflessione profonda sull’arte, l’invidia e la fragilità umana. E sì, è anche un capolavoro che ha fatto incetta di Oscar – otto, per la precisione – e che ancora oggi ci lascia a bocca aperta.

Il film si apre con un vecchio Antonio Salieri, interpretato da un magistrale F. Murray Abraham, che si confessa in un manicomio. È un uomo spezzato, divorato dal rimorso e dall’invidia per quel Mozart che, ai suoi occhi, era un dono immeritato del cielo. Salieri, compositore di corte rispettato ma mediocre, ci guida attraverso i suoi ricordi, dipingendo un Mozart (Tom Hulce) che è tutto fuorché il santo che ci aspetteremmo: un ragazzo prodigio diventato un adulto eccentrico, volgare, con una risata stridula che ti resta in testa per giorni. Eppure, quella stessa creatura insopportabile sforna melodie che sembrano scendere direttamente dal paradiso. È questa contraddizione che rende Amadeus così affascinante: Mozart è un genio, sì, ma è anche un disastro umano.
Forman non si limita a raccontarci una storia: ci immerge in un’epoca. La ricostruzione storica è sontuosa, dai costumi elaborati alle scenografie che sembrano dipinti viventi. Ogni dettaglio – il suono delle penne d’oca che grattano la carta, il fruscio delle sete, il clangore delle stoviglie nei banchetti – ti trasporta nella Vienna imperiale. E poi c’è la musica, ovviamente. Le composizioni di Mozart non sono solo un sottofondo: sono un personaggio a sé, che esplode sullo schermo con una forza che ti fa venire i brividi. Pensate alla scena in cui Salieri sfoglia i manoscritti di Mozart e si rende conto che sono perfetti, senza una correzione: è un momento di pura emozione, un pugno nello stomaco.
Ma il vero cuore del film è il rapporto tra Salieri e Mozart. Salieri dovrebbe essere il cattivo, il rivale che trama nell’ombra, forse persino l’assassino (anche se la storia reale smentisce questa teoria). Eppure, non riesci a odiarlo. Abraham lo rende così umano, così tormentato dalla sua mediocrità di fronte al genio, che finisci per provare pena per lui. Mozart, d’altro canto, è un’esplosione di vita: Hulce lo interpreta con un’energia contagiosa, ma anche con una vulnerabilità che emerge nei momenti più bui, come quando la sua salute e la sua fortuna iniziano a crollare. È un duello psicologico che ti tiene incollato allo schermo, chiedendoti chi sia davvero il vincitore.
Amadeus non è solo un film biografico: è una meditazione sull’arte e su cosa significhi essere umani. Ti fa ridere, ti commuove, ti fa arrabbiare. E quando arrivano i titoli di coda, con quella risata di Mozart che ancora ti rimbomba nelle orecchie, ti ritrovi a pensare: “Valeva la pena invidiarlo così tanto?”. Forman, con la sua regia impeccabile, ci regala un’opera che è essa stessa un piccolo miracolo, premiata con Oscar meritatissimi: miglior film, regia, attore protagonista (Abraham), sceneggiatura non originale, suono, costumi, scenografia e trucco. È cinema che ti cattura e non ti lascia andare.
Se non l’avete ancora visto, correte a recuperarlo.