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mercoledì 9 aprile 2025

Gente Comune (Ordinary People)

Se c’è un film che sa scavare nell’anima e lasciare un segno, quello è Gente Comune (Ordinary People), il debutto alla regia di Robert Redford che nel 1980 ha conquistato 4 Oscar, tra cui Miglior Film. Non è solo un dramma familiare: è un viaggio crudo e autentico nel cuore di una famiglia distrutta dalla perdita, un ritratto di come il dolore possa unire o spezzare irrimediabilmente i legami. Preparatevi a un’analisi che vi farà venir voglia di rivederlo (o scoprirlo per la prima volta)!
La storia ruota attorno ai Jarrett, una famiglia apparentemente perfetta che crolla sotto il peso della morte di Buck, il figlio maggiore, in un incidente nautico. Il vero fulcro emotivo è Conrad (Timothy Hutton), un adolescente devastato dal senso di colpa e dalla perdita, al punto da tentare il suicidio. I genitori, Beth (Mary Tyler Moore) e Calvin (Donald Sutherland), lo salvano per un soffio, ma il loro intervento non basta a ricucire le ferite. Beth si chiude in un guscio di freddezza, quasi respingendo il figlio, mentre Calvin cerca disperatamente di tenere insieme i pezzi. È un contrasto che ti colpisce dritto allo stomaco: da un lato l’incapacità di affrontare il lutto, dall’altro il bisogno di ritrovare un senso.
Poi c’è Karen, una luce fugace nella vita di Conrad. La ragazza, conosciuta in clinica, sembra offrirgli un appiglio, ma il suo suicidio successivo è un pugno nello stomaco, un promemoria di quanto fragile possa essere la ripresa. Il film non ti coccola con un lieto fine zuccheroso: si chiude con Calvin che, stanco del distacco di Beth, sceglie di allontanarla e ricostruire un futuro con Conrad. È malinconico, sì, ma anche profondamente umano.
E che cast! Timothy Hutton, al suo primo grande ruolo, porta sullo schermo un dolore che sembra quasi troppo reale – forse perché lo era: suo padre era morto poco prima delle riprese, e quella sofferenza traspare in ogni sguardo. Mary Tyler Moore, lontana dai suoi ruoli da “brava ragazza” televisiva, è agghiacciante nella sua compostezza glaciale. Donald Sutherland, con la sua calma tormentata, è il collante emotivo del film. E pensare che Lee Remick e Gene Hackman avrebbero potuto essere nel cast! Eppure, il destino ha voluto diversamente, regalandoci questa combinazione perfetta.
Redford, alla sua prima regia, dirige con una sensibilità che ti fa dimenticare che è un esordiente dietro la macchina da presa. La sceneggiatura, premiata con l’Oscar, è un equilibrio magistrale tra silenzi pesanti e dialoghi che tagliano come lame. E poi c’è Elizabeth McGovern, una giovane studentessa al suo debutto, che girava nei weekend tra un compito e l’altro – un dettaglio che rende il tutto ancora più affascinante.
Gente Comune non è un film facile. È un pugno al cuore, un’esplorazione di come il lutto possa trasformare le persone in modi che non avresti mai immaginato. Ma è anche una lezione di resilienza, di come si possa trovare luce anche nei momenti più bui. Se amate il cinema che vi fa pensare e sentire, questo è un must assoluto.

La singolarità è vicina?

martedì 8 aprile 2025

Era 1il 982, quando Richard Attenborough porta sul grande schermo la vita di Mohandas Karamchand Gandhi

Ti è mai capitato di guardare un film e sentirti come se stessi vivendo un pezzo di storia? Ecco, Gandhi è esattamente questo. Parliamo del 1982, quando Richard Attenborough porta sul grande schermo la vita di Mohandas Karamchand Gandhi, il “Mahatma”, con un kolossal che ti prende per mano e ti trascina in un viaggio lungo tre ore e sette minuti. Sì, è lungo, ma credimi: non te ne accorgi nemmeno.
Tutto inizia con una scena che ti colpisce dritto al cuore: un giovane avvocato indiano, impeccabile nel suo abito occidentale, viene buttato fuori da una carrozza di prima classe in Sudafrica. Perché? È indiano, e tanto basta. Quel momento non è solo un’ingiustizia, è la scintilla che accende una rivoluzione. Interpretato da un Ben Kingsley al suo debutto – sì, il suo primo film! – Gandhi passa da quell’umiliazione a diventare il simbolo della non violenza, un’arma tanto semplice quanto potente contro l’impero britannico. E Kingsley? È magnetico. Non recita, vive quel ruolo, tanto da portarsi a casa un Oscar come miglior attore protagonista. Ma non è solo lui a brillare: il film si aggiudica otto statuette, tra cui miglior film, regia, sceneggiatura, fotografia, costumi, scenografie e montaggio. Insomma, un trionfo totale.
La storia ti cattura passo dopo passo. Dalle marce pacifiche alle proteste che sfidano il potere con il silenzio, fino al tragico finale: Gandhi assassinato nel 1947 da un estremista indù, dopo aver provato a fermare il conflitto tra indù e musulmani. È un pugno nello stomaco, ma anche un monito. La non violenza di Gandhi non è solo una strategia politica, è un’idea che ti fa pensare: e se la usassimo di più, anche oggi? Il film te lo sbatte in faccia senza prediche, con immagini che parlano da sole – la fotografia è da togliere il fiato, i costumi ti fanno sentire l’India di allora.
Ok, lo ammetto: tre ore e passa possono spaventare. Ma qui non c’è un minuto sprecato. È grande cinema, di quello che ti lascia qualcosa dentro. Non è una serata da “pizza e film” spensierato, questo no. È per quando vuoi immergerti in una storia che ti scuote, ti ispira, ti fa venir voglia di saperne di più. E poi c’è Ben Kingsley: se non lo hai mai visto in Gandhi, ti stai perdendo un’interpretazione che ha fatto la storia. È partito da zero ed è diventato una leggenda con un solo film. Roba da matti, no?

Witchesblood - In Touch