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giovedì 17 aprile 2025

E.T. L’Extraterrestre di Steven Spielberg

 Pensate a un piccolo alieno, perso su un pianeta sconosciuto, con un cuore grande quanto una galassia e un desiderio semplice: tornare a casa. E.T. L’Extraterrestre di Steven Spielberg, uscito nel 1982, non è solo un film, ma un viaggio emotivo che ha segnato generazioni, intrecciando amicizia, innocenza e il potere dell’empatia in una storia senza tempo. Vi porto a riscoprire questo capolavoro, esplorando cosa lo rende così speciale e perché, dopo oltre quarant’anni, continua a farci commuovere.

Un Incontro tra Mondi
La trama è tanto semplice quanto universale: un gruppo di scienziati extraterrestri, in missione sulla Terra, viene interrotto da una task force militare. Nella fretta di fuggire, uno di loro, un piccolo essere con occhi grandi e un aspetto curioso, viene dimenticato. Solo, in un mondo ostile, questo alieno – che chiameremo E.T. – trova rifugio grazie a Elliott, un timido bambino di 10 anni. Con l’aiuto del fratello maggiore Michael e della sorellina Gertie, Elliott accoglie E.T. in casa, dando vita a un’amicizia che supera le barriere planetarie.
Ciò che rende E.T. unico è la capacità di Spielberg di raccontare una storia di fantascienza attraverso gli occhi di un bambino. Non ci sono grandi discorsi filosofici o effetti speciali esagerati (soprattutto considerando il budget di appena 10 milioni di dollari). Al centro c’è il legame tra Elliott ed E.T., un rapporto che si sviluppa con momenti di pura magia: dalle risate mentre E.T. scopre le meraviglie terrestri (come le lattine di birra o i dolcetti Reese’s Pieces) alla tensione quando il piccolo alieno, indebolito dall’atmosfera terrestre, lotta per sopravvivere.
La Magia dietro la Macchina da Presa
Spielberg, maestro nel catturare l’essenza dell’infanzia, ha diretto E.T. con un approccio profondamente umano. Le scene sono state girate in ordine cronologico, una scelta rara nel cinema, per permettere ai giovani attori – tra cui un giovanissimo Henry Thomas (Elliott) e una deliziosa Drew Barrymore (Gertie) – di vivere le emozioni della storia in modo naturale. Il risultato? Le lacrime dei bambini nella scena finale non sono finte: sono il riflesso di un addio che ha spezzato il cuore anche al pubblico.
Un altro tocco di genio è il design di E.T., creato dall’italiano Carlo Rambaldi. La sua faccia, ispirata a un mix tra Albert Einstein, il poeta Carl Sandburg e un bracco, è allo stesso tempo aliena e familiare, capace di trasmettere emozioni senza bisogno di parole. Chi non ricorda la sua voce roca che sussurra “Telefono… casa…”? È un momento che, ancora oggi, fa venire i brividi.
Curiosità e Retroscena
Il film è pieno di aneddoti affascinanti. La sceneggiatura, scritta da Melissa Mathison (all’epoca moglie di Harrison Ford), è un esempio di narrazione essenziale ma potente. Ford stesso avrebbe dovuto apparire come preside di Elliott, ma Spielberg tagliò la scena per non distogliere l’attenzione dalla storia. E sapevate che Michael Jackson compose una canzone per il film, mai utilizzata? Piccoli dettagli che arricchiscono la leggenda di E.T..
Con un incasso globale di 756,7 milioni di dollari, E.T. non è stato solo un successo commerciale, ma un fenomeno culturale. Ha vinto quattro Oscar (tra cui Miglior Colonna Sonora per l’iconico John Williams) e ha ridefinito il genere della fantascienza, dimostrando che una storia di alieni poteva essere profondamente umana.
Perché E.T. è Immortale
Guardare E.T. oggi significa riscoprire un cinema che parla al cuore. È una favola che ci ricorda l’importanza di accettare chi è diverso, di credere nell’amicizia e di non perdere mai la speranza, anche quando casa sembra lontana anni luce. La scena della bicicletta che vola contro la luna piena è diventata un’icona, non solo del cinema, ma della nostra immaginazione collettiva.
Che siate fan di vecchia data o nuovi spettatori, E.T. vi catturerà. È un film che non invecchia, perché le emozioni che racconta – amore, perdita, meraviglia – sono eterne. E se vi scappa una lacrima alla fine, non preoccupatevi: anche gli alieni, da qualche parte nell’universo, stanno piangendo con voi.

mercoledì 16 aprile 2025

L'ultimo Imperatore

Pensate a un bambino di tre anni, incoronato imperatore di un regno millenario, recluso in un palazzo dorato che è tanto una prigione quanto un trono. Immaginate poi quell’uomo, ormai anziano, che si aggira tra le strade di Pechino come un giardiniere qualunque, dopo essere stato un dio. Questa è la storia di Pu Yi, l’ultimo imperatore della Cina, raccontata con una maestosità visiva e un’intensità emotiva senza pari nel capolavoro di Bernardo Bertolucci, L’Ultimo Imperatore. Un film che non è solo cinema allo stato puro, ma un viaggio attraverso la storia, la cultura e l’umanità.

Un affresco storico che respira cinema

L’Ultimo Imperatore (1987) è un kolossal che trascende il genere epico. Bertolucci non si limita a narrare la vita di Pu Yi, ma dipinge un ritratto intimo e universale di un uomo intrappolato dal peso della sua corona. Dalla fastosa infanzia nella Città Proibita, dove ogni desiderio è un ordine, alla destituzione per mano dei giapponesi, fino alla sua reinvenzione come cittadino comune, il film cattura la transitorietà del potere e la fragilità dell’identità. È una storia che parla di cambiamento, non solo personale, ma di un’intera nazione che si trasforma sotto il tumulto del XX secolo.
La regia di Bertolucci è un atto d’amore per il cinema. Ogni inquadratura è un dipinto, grazie alla fotografia mozzafiato di Vittorio Storaro, che alterna i toni dorati della Città Proibita ai grigi opachi della prigionia. La scenografia di Ferdinando Scarfiotti e i costumi sontuosi trasportano lo spettatore in un’epoca lontana, mentre la colonna sonora di Ryuichi Sakamoto e David Byrne avvolge ogni scena con una malinconia struggente. Non sorprende che il film abbia conquistato 9 Oscar, un trionfo che ha celebrato non solo Bertolucci, ma l’intera cinematografia italiana, dal montaggio alla sceneggiatura non originale.

Un’impresa titanica

Realizzare L’Ultimo Imperatore è stato un’impresa quasi mitologica. Per la prima volta, il governo cinese ha permesso a una troupe occidentale di filmare nella Città Proibita, un luogo fino ad allora inaccessibile alle cineprese. Con 19.000 comparse, quasi 1.000 chili di capelli umani per le parrucche e un’attenzione maniacale ai dettagli, il film è un monumento alla dedizione artistica. Persino Bertolucci, costretto a muoversi in bicicletta per rispettare le regole del set, ha incarnato lo spirito di sacrificio che permea questa produzione.
Eppure, ciò che rende il film indimenticabile non è solo la sua grandiosità, ma la sua umanità. Pu Yi, interpretato magistralmente da John Lone (e da un giovanissimo Richard Vuu nella versione infantile), non è solo un simbolo storico, ma un uomo che cerca di trovare il proprio posto in un mondo che lo ha prima venerato e poi dimenticato. È impossibile non provare empatia per lui, mentre si confronta con la perdita, la solitudine e, infine, l’accettazione.

Perché guardarlo oggi?
In un’epoca dominata da blockbuster frenetici, L’Ultimo Imperatore ci ricorda il potere del cinema come arte. È un film che chiede tempo e attenzione, ma ripaga con una profondità emotiva e visiva che pochi altri possono eguagliare. Che siate appassionati di storia, amanti del cinema d’autore o semplicemente curiosi di scoprire una cultura lontana, questo film ha qualcosa da offrire. È un’esperienza che vi farà riflettere sul potere, sull’identità e sulla capacità di rinascere, anche quando tutto sembra perduto.

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