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giovedì 22 maggio 2025

"The Elephant Man": un capolavoro di umanità e poesia in bianco e nero

 Immaginate di trovarvi nella Londra di fine Ottocento, tra le nebbie di Whitechapel e il clangore dei carretti. In un angolo di questa metropoli brulicante, un uomo vive un’esistenza di sofferenza e umiliazione, ma anche di straordinaria resilienza e bellezza interiore. Questo è The Elephant Man (1980), il secondo lungometraggio di David Lynch, un film che trascende il dramma biografico per diventare un’ode alla dignità umana. Basato sulla vera storia di John Merrick, affetto da una rara e devastante forma di neurofibromatosi, il film è un viaggio emotivo che colpisce dritto al cuore, diretto con una sensibilità che smentisce la reputazione di Lynch come autore di visioni disturbanti.

Una storia vera che sembra un sogno
John Merrick, interpretato con una profondità straziante da John Hurt, è un uomo il cui corpo è prigioniero di una malattia che deforma il suo cranio e il suo aspetto in modo quasi inconcepibile. Esibito come un "fenomeno da baraccone" nei circhi ambulanti, Merrick vive un’esistenza di degrado, umiliato e isolato. Ma il destino gli offre una possibilità di riscatto quando il dottor Frederick Treves (Anthony Hopkins, in una delle sue prove più sobrie e intense) lo incontra e decide di salvarlo, portandolo al London Hospital. Qui, sotto la tutela di Treves, Merrick rivela un’anima straordinaria: è colto, sensibile, capace di creare piccoli capolavori artistici e di sognare una vita che la sua condizione gli nega.
Il film non si limita a raccontare una storia di compassione. Lynch esplora la complessità dell’umanità: la curiosità morbosa della società vittoriana, l’ipocrisia di chi si avvicina a Merrick per moda, ma anche la genuina empatia di chi, come l’attrice Madge Kendal (Anne Bancroft) o la principessa del Galles, riconosce la sua dignità. Uno dei momenti più memorabili è la serata a teatro, quando Merrick, per una notte, non è più "l’uomo elefante" ma un uomo tra gli uomini, applaudito in piedi dal pubblico mentre la sua amica Kendal gli dedica lo spettacolo. È un istante di pura catarsi, che rende ancora più straziante la scelta di Merrick di porre fine alla sua vita quella stessa notte, consapevole che la sua malattia non gli lascerà scampo.
La mano di Lynch: poesia nel dolore
David Lynch, reduce dal disturbante Eraserhead, dimostra con The Elephant Man una versatilità sbalorditiva. Il bianco e nero scelto per il film non è solo un omaggio all’estetica dell’epoca, ma un modo per amplificare l’atmosfera onirica e senza tempo della storia. La fotografia di Freddie Francis è un capolavoro di contrasti, con ombre che sembrano inghiottire i vicoli londinesi e luci che accarezzano i momenti di tenerezza. La regia di Lynch è delicata, quasi reverenziale, ma non priva di quei tocchi surreali che diventeranno il suo marchio di fabbrica: le sequenze oniriche, come l’apertura del film, sono pennellate di un artista che sa rendere il dolore universale.
E poi c’è la performance di John Hurt. Sotto strati di protesi (create con un lavoro pionieristico di trucco, tanto che l’Academy istituì un Oscar per il miglior trucco l’anno successivo), Hurt dà vita a Merrick con una vulnerabilità e una grazia che spezzano il cuore. Ogni parola, ogni gesto, trasmette la lotta di un uomo per essere visto oltre il suo aspetto. Anthony Hopkins, dal canto suo, regala un Treves combattuto tra il desiderio di aiutare e il timore di aver trasformato Merrick in un altro tipo di "esposizione". È un duo attoriale che eleva il film a livelli di rara potenza emotiva.
Un film che sfida le aspettative
The Elephant Man è stato un azzardo produttivo, finanziato da Mel Brooks, che, reduce dal successo di commedie come Frankenstein Junior, decise di non accreditarsi per paura che il pubblico si aspettasse una parodia. La sua fiducia in Lynch, però, fu ripagata: il film ottenne otto nomination agli Oscar, incluse miglior film, regia e attore protagonista. Incredibilmente, non vinse nulla, superato da Gente comune di Robert Redford, una scelta che ancora oggi fa storcere il naso a molti cinefili. Ma il tempo ha reso giustizia a The Elephant Man, oggi considerato uno dei grandi classici del cinema.
Perché guardarlo oggi
A oltre quarant’anni dalla sua uscita, The Elephant Man resta un film necessario. È una riflessione sull’empatia, sull’accettazione e sulla crudeltà nascosta nelle convenzioni sociali. La storia di Merrick ci ricorda che la bellezza non risiede nell’aspetto, ma nella capacità di provare amore, creare arte e sognare, anche di fronte a un destino crudele. È un film che commuove senza manipolare, che ti lascia con un nodo in gola ma anche con una strana, inspiegabile speranza.
Se non l’avete mai visto, preparatevi a un’esperienza che vi cambierà. E se l’avete già visto, riguardatelo: la poesia di Lynch e l’umanità di Merrick hanno ancora tanto da insegnarci. Come direbbe lo stesso John: “Non sono un animale, sono un essere umano”. E questo film è un promemoria eterno di quella verità.



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