Se c’era ancora qualcuno a Bruxelles o nelle cancellerie europee che sperava che il secondo mandato di Donald Trump fosse solo una versione più rumorosa ma innocua del primo, l’intervista rilasciata oggi a La Stampa da Ian Bremmer dovrebbe fungere da doccia gelata definitiva. E, purtroppo, temo che per molti leader europei l'acqua sia già alla gola.
Il fondatore di Eurasia Group non usa mezzi termini, e fa bene. La sua analisi è spietata perché la realtà che ci descrive non ammette più le sfumature diplomatiche dietro cui l’Europa si è nascosta per tutto il 2024. Leggendo le sue parole, emerge un quadro che non è solo di crisi, ma di irreversibilità. Bremmer mette il dito nella piaga più dolorosa: l'illusione europea di poter "gestire" Trump attraverso la logica istituzionale o le vecchie alleanze.
Il punto nevralgico dell'intervista non è tanto la minaccia della NATO — un tema che, come osserva giustamente Bremmer, Trump usa più come leva negoziale che come reale pulsione isolazionista — quanto la ridefinizione brutale del concetto di alleanza. L’Alleanza Atlantica non è morta, ma è diventata un club a pagamento. L'articolo 5, sacro Graal della sicurezza occidentale, è stato di fatto trasformato in una clausola contrattuale soggetta a revisione annuale basata sul bilancio della difesa dei singoli stati. Bremmer lo dice chiaramente: per Trump non esistono "alleati", esistono "partner paganti" e "freeloader". E l'Europa, divisa e lenta, è ancora vista come un parassita del welfare militare americano.
Ma è sull'Ucraina che l'analisi di Bremmer si fa più cupa e, se vogliamo, profetica rispetto ai timori di un anno fa. La spinta di Washington per congelare il conflitto non è un gesto di pace, ma di disinteresse strategico. Bremmer sottolinea come l'Europa sia stata lasciata sola a gestire le conseguenze economiche e sociali di una guerra ai suoi confini, mentre la Casa Bianca sposta il pivot (stavolta sul serio) verso il contenimento commerciale della Cina e la chiusura dei confini interni. Il messaggio è brutale: "Cari europei, la sicurezza del vostro cortile di casa è affare vostro".
E qui arriviamo alla critica più aspra che, da giornalista, mi sento di condividere pienamente. L'Unione Europea descritta da Bremmer è un gigante paralizzato. Con una Germania ancora in cerca di una bussola politica stabile e una Francia che fatica a mantenere la leadership continentale, l'assenza di una risposta unitaria ai dazi e alle pressioni di Washington è imbarazzante. Bremmer nota come i singoli leader — e cita implicitamente la strategia "camaleontica" di figure come Giorgia Meloni — cerchino sponde bilaterali con la Casa Bianca per salvarsi la pelle, frammentando ulteriormente il fronte comune. È la tattica del "si salvi chi può", che trasforma l'UE da blocco geopolitico a semplice mercato di consumatori.
C'è un passaggio che non dovremmo ignorare: la tecnologia e i dazi. Bremmer avverte che la guerra commerciale del 2026 non sarà sull'acciaio, ma sui dati, sull'AI e sulle piattaforme. Se l'Europa non capisce che la sovranità digitale vale quanto quella militare, diventeremo una colonia tecnologica degli USA (e in parte della Cina), indipendentemente da chi siede nello Studio Ovale.
In conclusione, Ian Bremmer non ci sta dicendo nulla che non avremmo dovuto già capire il 5 novembre 2024. Ci sta solo dicendo che il tempo per l'indignazione è scaduto. Ora siamo nel tempo delle conseguenze. L'Europa deve decidere se vuole essere un attore strategico adulto, capace di difendersi e di competere, o se preferisce rimanere un nobile decaduto che si lamenta del servizio al tavolo mentre il ristorante sta cambiando gestione.
La sveglia sta suonando da un anno. Perché continuiamo a premere il tasto "posponi"?

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