C’è una lava che scorre sotto la pelle di chi legge Claudia Ruggeri, una poetessa che non si dimentica. Nasce a Napoli nel ’67, si radica a Lecce, e a 29 anni sceglie il volo – un balcone, la notte del 27 ottobre 1996, un vuoto che aveva già cantato mille volte nei suoi versi. Ma prima di quel salto, ci ha lasciato un grido, un teatro immenso di parole che brucia ancora. Riesco a immaginarla a 17 anni, sul palco della Festa dell’Unità: gonna nera, cappello rosso, occhi che incendiano l’aria. È il 1985, il Salento ribolle di poesia – L’Incantiere, SalentoPoesia, il Laboratorio di Arrigo Colombo – e Claudia è una fiamma tra le fiamme. Strega tutti, declama versi che pesano come macigni e danzano come spettri. Scrive a Franco Fortini, si confida con Dario Bellezza: il primo le dice che il suo talento è ‘ingioiellato’, troppo pieno, ma è proprio lì che pulsa la sua voce – un ‘inferno minore’, lo chiama lei, un caos di echi che urla il dolore, l’amore spezzato, la solitudine.
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mercoledì 26 marzo 2025
C’è una lava che scorre sotto la pelle di chi legge Claudia Ruggeri ....
‘T’avrei lavato i piedi / oppure mi sarei fatta altissima’ – c’è tutto in questi versi: la fragilità che si piega, la grandezza che si tende fino a spezzarsi. La sua poesia è una scena affollata: Beatrice (quella di Dante, giovane e terrena), Ninive che sussurra la morte, il Matto dei tarocchi che ride del nulla e svela verità. E poi Shakespeare, Campana, Beckett, un coro di maestri che lei fa parlare, quasi a dire: ‘Non sono sola, ma lo sono’.
Il 1996 la spezza: Dario se ne va, Amelia Rosselli pure, e il vuoto diventa abisso. Dalla chiesa al balcone, un ultimo passo. Ma i suoi versi non tacciono: Inferno minore, uscito postumo, è un pugno allo stomaco; gli inediti, con quelle parentesi sospese, un respiro strozzato. La sua scrittura si fa minuscola, asfittica, come se il foglio stesso soffocasse con lei.
Leggerla e ascoltarla è viverla : chi l’ha sentita recitare dice che era nata per il palco, per dare carne alle parole. Io me la immagino ancora, con quel cappello rosso, a sussurrarmi che il vuoto non vince, se sai cantarlo. Claudia Ruggeri è un fuoco che non si spegne – provate a leggerla, e ditemi se non vi resta dentro.(s.d)
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martedì 25 marzo 2025
Nudo di padre di Rossano Astremo (Solferino)
Rossano Astremo, voce autentica della narrativa pugliese che si è fatta strada nella caotica e affascinante Roma, torna a colpire con Nudo di padre, pubblicato da Solferino. Questo romanzo non è solo una storia: è un viaggio intimo, doloroso e lirico nell’abisso delle relazioni familiari, un’indagine che scava con delicatezza e ferocia nel mistero di ciò che ci lega e, al contempo, ci spezza. Astremo, insegnante e autore che sa coniugare la polvere delle sue radici grottagliesi con la complessità della vita metropolitana, ci consegna un’opera che vibra di verità e malinconia, ma anche di una sorprendente capacità di rinascita.
Il libro si apre con un incipit che è un pugno nello stomaco: “Quando venni al mondo, in una domenica di primavera del 1979, ad accogliermi non ci furono due genitori festosi, ma il volto subdolo dell’abbandono”. Da qui, il lettore è trascinato nella vita di un bambino nato sotto il segno di un’assenza che non è solo fisica – il padre lontano, operaio in Germania – ma emotiva, un vuoto che si cristallizza in una polaroid sbiadita, unico testimone di un legame mai davvero vissuto. La madre, sola e depressa, incapace di colmare quel silenzio, diventa il primo specchio di una solitudine che il protagonista si porta dentro come un’eredità.
Eppure, Nudo di padre non è un semplice lamento sull’abbandono. Astremo costruisce un Bildungsroman contemporaneo che si snoda tra Grottaglie e il mondo, seguendo il percorso di un ragazzo che, orfano di guida paterna, cerca salvezza altrove: negli amici, nei libri, nella letteratura che diventa rifugio e arma. Il protagonista, crescendo, si aggrappa a figure maschili sostitutive – Sergio, Fabrizio, Enrico – e alla cultura come àncora contro il naufragio delle sue origini. Ma il vuoto, come un’ombra ostinata, non lo abbandona mai del tutto. Anche quando diventa uomo e padre, il conto di quell’assenza torna a bussare, costringendolo a ridefinire il concetto stesso di amore e responsabilità.
La prosa di Astremo è un equilibrio perfetto tra introspezione e narrazione fluida. Non c’è spazio per il sentimentalismo facile: il dolore è raccontato con una lucidità che a volte spiazza, ma che lascia intravedere spiragli di luce. L’estratto che ci porta al secondo anno di liceo del protagonista è emblematico: la scuola come riscatto, la letteratura come collante, e un padre che resta un estraneo, incapace di vedere il valore del figlio. Qui emerge il tema del riscatto sociale, caro alla narrativa italiana, ma declinato con una sensibilità moderna che guarda oltre il semplice conflitto generazionale.
Astremo riesce a tessere un racconto universale partendo da un’esperienza profondamente locale. Grottaglie, con i suoi silenzi e le sue strade polverose, è più di uno sfondo: è un personaggio che respira, che condiziona e che, in qualche modo, trattiene. Eppure, il protagonista sceglie la fuga – geografica e sentimentale – per costruirsi un’identità nuova, lontana da quel “nudo di padre” che lo ha segnato.
Nudo di padre è un libro che parla a chi ha mai sentito il peso di un’assenza, ma anche a chi crede nella possibilità di riscrivere la propria storia. Astremo ci ricorda che le famiglie, con i loro vuoti e le loro contraddizioni, sono il primo mistero che siamo chiamati a decifrare. Un romanzo intenso, che si legge con il cuore in gola e che lascia un segno, come una polaroid che non sbiadisce mai del tutto.
Nadia Cassini... un’esplosione di vita che ha attraversato gli anni ’70 e ’80 italiani con la forza di un uragano!
Nadia Cassini non è stata solo un volto, un corpo o un nome da locandina. È stata un simbolo, un’esplosione di vita che ha attraversato gli anni ’70 e ’80 italiani con la forza di un uragano, lasciando dietro di sé un’eredità che ancora oggi fa discutere, sorridere e, per molti, sognare. Come uno che ha passato anni a osservare il mondo dello spettacolo, la televisione e i mutamenti della società, non posso che guardare a lei con un misto di ammirazione e nostalgia. Nadia, scomparsa il 18 marzo 2025 a Reggio Calabria all’età di 76 anni dopo una lunga malattia, è stata molto più di una “star della commedia sexy all’italiana”: è stata un riflesso di un’Italia che non aveva paura di guardarsi allo specchio, con i suoi vizi, i suoi desideri e la sua irresistibile ironia.
Nata Gianna Lou Müller a Woodstock nel 1949, figlia di due artisti di vaudeville – un padre tedesco-americano e una madre di origini italiane – Nadia sembrava destinata al palcoscenico fin dal primo respiro. La sua vita è stata un romanzo: lascia presto la famiglia, si mantiene cantando nei night club, ballando, posando come modella. Entra nella cronaca rosa come amante di Georges Simenon, il maestro del noir, e poi sposa il conte Igor Cassini, giornalista e fratello dello stilista Oleg, arrivando in Italia alla fine degli anni ’60. È qui che la sua storia prende una piega unica, trasformandola in un’icona che il nostro Paese non dimenticherà mai.
Sul grande schermo, Nadia ha dato vita a un genere – la commedia sexy all’italiana – che oggi può far storcere il naso ai più puritani, ma che negli anni ’70 era un fenomeno di costume, un’esplosione di leggerezza e trasgressione. Film come L’insegnante balla… con tutta la classe (1979), L’infermiera nella corsia dei militari (1979) con Lino Banfi, o La dottoressa ci sta col colonnello (1980) non erano solo titoli da cassetta: erano specchi di un’Italia che rideva di sé stessa, che celebrava il desiderio senza troppi moralismi. Nadia, con quel suo fondoschiena assicurato per un miliardo di lire e un viso da angelo birichino, era perfetta per quel mondo. Non recitava capolavori d’autore, certo, ma portava sullo schermo una vitalità che inchiodava gli spettatori alle poltrone. E lo faceva con un’ironia che, a riguardarla oggi, aveva qualcosa di profondamente autentico.
Poi c’è stata la televisione, quel passaggio naturale per una diva del suo calibro. Negli anni ’80, sulle neonate reti Mediaset di Silvio Berlusconi, Nadia diventa una delle prime sex symbol dell’era delle tv private. Partecipa a Premiatissima con Amanda Lear, illumina Drive In con il suo carisma, si fa spazio a Risatissima. Ma non era solo bellezza: c’era un carattere, un’energia irrequieta. Dicono fosse irascibile, difficile sul set, e forse è vero. Eppure, dietro quel temperamento c’era una donna che non voleva essere solo un oggetto da ammirare. Cantava (chi non ricorda A chi la do stasera?), posava per Playboy e Playmen, sognava di ballare e recitare altrove. La sua voce, spesso doppiata al cinema per la difficoltà con l’italiano, nascondeva un’anima che cercava di rompere gli schemi.
La sua parabola, però, non è stata senza ombre. Dopo il ritiro dalle scene italiane alla fine degli anni ’80 – prima in Francia, poi negli Stati Uniti – Nadia ha vissuto una vita segnata da alti e bassi. Un intervento di chirurgia plastica mal riuscito le deturpò il viso, spingendola verso l’alcolismo, da cui uscì grazie al sostegno della madre e della figlia Kassandra, nata dalla relazione con l’attore greco Yorgo Voyagis. Un incidente d’auto nel 2009 le fratturò il corpo e forse anche un po’ lo spirito. Eppure, nelle rare apparizioni successive, come quella a Domenica Live nel 2013, si percepiva ancora quella scintilla, quel desiderio di tornare, di raccontare qualcosa di nuovo.
Nadia Cassini ci lascia con un’eredità complessa. È stata il sogno erotico di una generazione, sì, ma anche una donna che ha incarnato un’Italia spudorata e vitale, lontana dal perbenismo di oggi. In un’epoca in cui tutto sembra filtrato dal politicamente corretto, la sua sfacciataggine ci manca. Era un’icona che non si scusava di esistere, e forse è per questo che il suo addio fa così male. Come direbbe un amico davanti a un caffè: “Nadia era un fuoco, e quel fuoco non si spegne facilmente nei ricordi di chi l’ha vista brillare”. (s.d.)
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