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martedì 24 giugno 2025

Creepshow: l’orrore a fumetti che ti striscia sottopelle

 


















Se c’è una cosa che gli anni ’80 ci hanno regalato, è quel mix irresistibile di horror, umorismo nero e un pizzico di nostalgia per i fumetti che odoravano di cantina. Creepshow (1982), diretto da George A. Romero con una sceneggiatura firmata dal maestro Stephen King, è proprio questo: un’antologia di cinque storie macabre, ispirate ai leggendari comic book EC Comics degli anni ’50 e ’70, che ti fanno rabbrividire e ridere nello stesso momento. È un film che sembra scritto da un gruppo di amici in una serata di Halloween, con una birra in mano e una torcia sotto il mento. E, credetemi, è un viaggio che ogni amante del genere dovrebbe fare almeno una volta.
Un omaggio ai fumetti dell’orrore
Creepshow non è solo un film, è una lettera d’amore ai fumetti horror come Tales from the Crypt. La struttura a episodi, incorniciata da un prologo con un giovane Joe King (sì, il figlio di Stephen!) che si ribella al padre censore, ci catapulta in un mondo dove ogni storia è un racconto dello Zio Tibia – o, per noi italiani cresciuti con Italia Uno, di quel telefilm che ci faceva venire gli incubi ma non riuscivamo a smettere di guardare. Ogni episodio è un mix di noir, splatter e dark comedy, con quel tocco di esagerazione che rende l’orrore quasi… giocoso. E poi ci sono i dettagli: un cavallo di vetro e un portacenere che spuntano in ogni segmento, come Easter egg per i più attenti.
Le storie: un cocktail di brividi e risate
  1. La festa del papà
    Immaginate un padre tirannico che torna dalla tomba per reclamare la sua torta di compleanno. Sette anni dopo essere stato ucciso dalla figlia, questo patriarca zombie non è esattamente in cerca di abbracci. È un episodio che mischia vendetta e grottesco, con un finale che ti strappa un ghigno. Perfetto per aprire le danze.
  2. La morte solitaria di Jordy Verrill
    Qui Stephen King si ritaglia un ruolo da protagonista, interpretando un contadino un po’ tonto che trova un meteorite nel suo giardino. Spoiler: non è il biglietto vincente della lotteria. La “sostanza” che fuoriesce dal meteorite dà vita a una trasformazione… verde e rampicante. King è esilarante nel suo eccesso, e l’episodio è un mix di body horror e umorismo camp che ti resta incollato addosso.
  3. La marea ti sommergerà
    Leslie Nielsen, sì, quello di Una pallottola spuntata, qui è un marito tradito che architetta una vendetta crudele seppellendo la moglie e il suo amante sulla spiaggia, lasciando che la marea faccia il resto. Ma, come recita il detto, “a volte ritornano”. È un episodio teso, con un Nielsen sorprendentemente inquietante e un finale che sa di giustizia ultraterrena.
  4. La cassa
    Una cassa misteriosa, nascosta per oltre un secolo, contiene qualcosa di affamato e feroce. Per un marito stanco della moglie petulante, potrebbe essere la soluzione perfetta. Con un cameo della moglie di John Carpenter (e la cassa indirizzata a un certo “Juan Carpenter” – strizzata d’occhio!), questo segmento è un racconto di avidità e ironia, con un mostro che non dimenticherai facilmente.
  5. Ti strisciano addosso
    Il mio preferito, e non solo perché sono un fan della dark comedy. Un maniaco della pulizia vive in un appartamento sterile come un’astronave, ma il suo incubo peggiore – un’invasione di scarafaggi – diventa realtà. E che realtà: 25.000 scarafaggi veri furono usati per le riprese (e poi, ahimè, gasati). Questo episodio è un trionfo di disgusto e ironia, ma attenzione: l’edizione cinematografica è stata tagliata, quindi cercate la versione in videocassetta per godervelo appieno.
Perché guardarlo oggi?
Creepshow non è solo un film horror, è un’esperienza. È il tipo di film che guardi con gli amici, con una pizza e un po’ di birre, ridendo delle esagerazioni e sobbalzando nei momenti giusti. La regia di Romero è solida, con un uso di colori vivaci e transizioni a fumetto che rendono ogni scena un quadro. La sceneggiatura di King, poi, è puro divertimento: ogni storia ha quel tocco di morale contorta tipica dei suoi racconti, ma senza prendersi troppo sul serio.
E poi c’è il cast: oltre a King che si diverte un mondo, abbiamo Ted Danson, Hal Holbrook, Adrienne Barbeau e persino E.G. Marshall che combatte contro un’orda di scarafaggi. È un film che trasuda passione per il genere, e si sente.
Curiosità per i fan
  • Scarafaggi a bizzeffe: L’ultimo episodio è un incubo per chi ha la fobia degli insetti. Quei 25.000 scarafaggi? Reali. E il set doveva essere un inferno.
  • Cameo di famiglia: Joe King, il bimbo del prologo, è il figlio di Stephen. E la moglie di John Carpenter è la protagonista de La cassa.
  • Easter egg: Cercate il cavallo di vetro e il portacenere in ogni episodio. Sono come il marchio di fabbrica del film.
  • Zio Tibia vibes: Se siete cresciuti con i telefilm horror di Italia Uno, questo film vi farà sentire a casa.

Creepshow è un gioiellino per chi ama l’horror con un sorriso. Non è il film più spaventoso del mondo, ma non vuole esserlo: è un rollercoaster di storie che ti fanno rabbrividire, ridere e, a volte, coprire gli occhi. Se siete fan di Stephen King, di Romero o semplicemente dei fumetti horror, non potete perdervelo. E se lo guardate, fatelo con la versione integrale – quegli scarafaggi meritano tutto il loro spazio.

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Venerdì 13 Parte III: Quando Jason Indossa la Maschera e Diventa Leggenda

 Immaginatevi un campeggio avvolto dalla nebbia, il crepitio di un falò, risate di ragazzi ignari e, nell’ombra, un’ombra massiccia che stringe un machete. È il 1982, e Venerdì 13 Parte III sta per scolpire il nome di Jason Voorhees nell’olimpo dell’horror, regalandogli la sua iconica maschera da hockey. Come un amico che vi racconta un film davanti a una birra, vi porto dentro questo terzo capitolo della saga, un mix di gore, ingenuità anni ’80 e un pizzico di genio involontario che lo rende indimenticabile.

La nascita di un’icona
Jason Voorhees, già macellaio seriale nel secondo capitolo, qui diventa il Jason. Nel primo film era solo un’eco, un trauma materno; nel secondo, un brutale sacco di patate con un cappuccio in testa. Ma in Parte III, diretto da Steve Miner, il nostro antieroe trova la sua identità: una maschera da hockey bianca e rossa, rubata a una delle sue vittime, che lo trasforma in un simbolo. È un po’ come quando Clark Kent mette gli occhiali o Tony Stark si infila l’armatura di Iron Man: un dettaglio che definisce un mito. E pensare che nessuno, in questo film, pronuncia il suo nome, come se Jason fosse un’entità innominabile, un boogeyman che aleggia su Camp Crystal Lake.
La maschera non è solo un gadget estetico. Negli anni ’80, l’horror stava costruendo i suoi titani: Freddy Krueger con il suo guanto artigliato, Michael Myers con il volto pallido e inespressivo. Jason, con quella maschera, si guadagna un posto al tavolo, diventando la seconda maschera più riconoscibile del decennio, come un cattivo che si presenta a una festa e ruba la scena.
La trama: un glorioso déjà-vu
Se avete visto un Venerdì 13, li avete visti tutti, e Parte III non fa eccezione. Un gruppo di ragazzi, ognuno un cliché ambulante (il nerd, la ragazza timida, il macho, la coppia di fumati), decide che passare il weekend a Camp Crystal Lake, teatro di omicidi leggendari, sia un’ottima idea. Spoiler: non lo è. Jason, come un giardiniere psicopatico, li falcia uno a uno con una creatività splatter che farebbe invidia a un film di Tarantino. Forconi, machete, frecce: ogni arma è un pretesto per un’uccisione truculenta, spesso così esagerata da strappare una risata.
La formula è semplice, quasi ritualistica, e qui sta il fascino. Come in Final Destination, che verrà anni dopo, il divertimento non sta nel “se” moriranno, ma nel “come”. La sceneggiatura non si preoccupa di innovare: è un giro sulle montagne russe, prevedibile ma esilarante. E il finale? Jason viene “ucciso” (le virgolette sono d’obbligo), ma il suo corpo sparisce, lasciando la porta spalancata per il sequel. Perché, diciamocelo, nessuno va a vedere Venerdì 13 per la chiusura narrativa.
Un successo insanguinato
Con un budget di appena 4 milioni di dollari, Parte III incassa 37 milioni solo negli USA, una strage anche al botteghino. È il segno che il pubblico degli anni ’80, affamato di horror, aveva trovato il suo guilty pleasure. Girato in 3D (anche se questa versione uscì solo in Giappone), il film sfrutta ogni occasione per lanciare oggetti verso lo schermo: frecce, coltelli, persino un occhio che schizza fuori (sì, davvero). È un gimmick che oggi sembra naïf, ma all’epoca era pura magia da drive-in.
E poi ci sono le curiosità che fanno innamorare i fan. Il titolo di lavorazione, Crystal Japan, omaggia una canzone di David Bowie, un dettaglio che dà al film un’aura di stravaganza. Cronologicamente, gli eventi seguono il primo capitolo, tanto che il titolo avrebbe dovuto essere Sabato 14 (ma chi siamo noi per discutere con la logica di Hollywood?). E, incredibile ma vero, è l’unico film della saga dove le vittime non nominano Jason, rendendo il suo terrore ancora più mitologico.
Perché guardarlo oggi?
Venerdì 13 Parte III non è un capolavoro. La recitazione è traballante, i dialoghi sono puro formaggio anni ’80, e la logica narrativa è un optional. Eppure, è un film che vibra di energia. È l’horror di un’epoca in cui i mostri erano tangibili, fatti di lattice e sudore, non di CGI. È il capitolo che consacra Jason come re degli slasher, un genere che, con le sue regole ferree (sesso = morte, il “final girl” sopravvive), è quasi un rito collettivo.
Guardatelo per la nostalgia, per le uccisioni creative, per quella maschera che è entrata nella cultura pop. Guardatelo con amici, ridendo delle assurdità e sobbalzando ai jump scare. È un film che non si prende sul serio, e per questo è perfetto. Come direbbe un personaggio del film, prima di essere inevitabilmente affettato: “Andrà tutto bene, no?”. Spoiler: non andrà bene, ma vi divertirete un mondo.



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