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lunedì 23 giugno 2025

Venerdì 13 Parte III: Quando Jason Indossa la Maschera e Diventa Leggenda

 Immaginatevi un campeggio avvolto dalla nebbia, il crepitio di un falò, risate di ragazzi ignari e, nell’ombra, un’ombra massiccia che stringe un machete. È il 1982, e Venerdì 13 Parte III sta per scolpire il nome di Jason Voorhees nell’olimpo dell’horror, regalandogli la sua iconica maschera da hockey. Come un amico che vi racconta un film davanti a una birra, vi porto dentro questo terzo capitolo della saga, un mix di gore, ingenuità anni ’80 e un pizzico di genio involontario che lo rende indimenticabile.

La nascita di un’icona
Jason Voorhees, già macellaio seriale nel secondo capitolo, qui diventa il Jason. Nel primo film era solo un’eco, un trauma materno; nel secondo, un brutale sacco di patate con un cappuccio in testa. Ma in Parte III, diretto da Steve Miner, il nostro antieroe trova la sua identità: una maschera da hockey bianca e rossa, rubata a una delle sue vittime, che lo trasforma in un simbolo. È un po’ come quando Clark Kent mette gli occhiali o Tony Stark si infila l’armatura di Iron Man: un dettaglio che definisce un mito. E pensare che nessuno, in questo film, pronuncia il suo nome, come se Jason fosse un’entità innominabile, un boogeyman che aleggia su Camp Crystal Lake.
La maschera non è solo un gadget estetico. Negli anni ’80, l’horror stava costruendo i suoi titani: Freddy Krueger con il suo guanto artigliato, Michael Myers con il volto pallido e inespressivo. Jason, con quella maschera, si guadagna un posto al tavolo, diventando la seconda maschera più riconoscibile del decennio, come un cattivo che si presenta a una festa e ruba la scena.
La trama: un glorioso déjà-vu
Se avete visto un Venerdì 13, li avete visti tutti, e Parte III non fa eccezione. Un gruppo di ragazzi, ognuno un cliché ambulante (il nerd, la ragazza timida, il macho, la coppia di fumati), decide che passare il weekend a Camp Crystal Lake, teatro di omicidi leggendari, sia un’ottima idea. Spoiler: non lo è. Jason, come un giardiniere psicopatico, li falcia uno a uno con una creatività splatter che farebbe invidia a un film di Tarantino. Forconi, machete, frecce: ogni arma è un pretesto per un’uccisione truculenta, spesso così esagerata da strappare una risata.
La formula è semplice, quasi ritualistica, e qui sta il fascino. Come in Final Destination, che verrà anni dopo, il divertimento non sta nel “se” moriranno, ma nel “come”. La sceneggiatura non si preoccupa di innovare: è un giro sulle montagne russe, prevedibile ma esilarante. E il finale? Jason viene “ucciso” (le virgolette sono d’obbligo), ma il suo corpo sparisce, lasciando la porta spalancata per il sequel. Perché, diciamocelo, nessuno va a vedere Venerdì 13 per la chiusura narrativa.
Un successo insanguinato
Con un budget di appena 4 milioni di dollari, Parte III incassa 37 milioni solo negli USA, una strage anche al botteghino. È il segno che il pubblico degli anni ’80, affamato di horror, aveva trovato il suo guilty pleasure. Girato in 3D (anche se questa versione uscì solo in Giappone), il film sfrutta ogni occasione per lanciare oggetti verso lo schermo: frecce, coltelli, persino un occhio che schizza fuori (sì, davvero). È un gimmick che oggi sembra naïf, ma all’epoca era pura magia da drive-in.
E poi ci sono le curiosità che fanno innamorare i fan. Il titolo di lavorazione, Crystal Japan, omaggia una canzone di David Bowie, un dettaglio che dà al film un’aura di stravaganza. Cronologicamente, gli eventi seguono il primo capitolo, tanto che il titolo avrebbe dovuto essere Sabato 14 (ma chi siamo noi per discutere con la logica di Hollywood?). E, incredibile ma vero, è l’unico film della saga dove le vittime non nominano Jason, rendendo il suo terrore ancora più mitologico.
Perché guardarlo oggi?
Venerdì 13 Parte III non è un capolavoro. La recitazione è traballante, i dialoghi sono puro formaggio anni ’80, e la logica narrativa è un optional. Eppure, è un film che vibra di energia. È l’horror di un’epoca in cui i mostri erano tangibili, fatti di lattice e sudore, non di CGI. È il capitolo che consacra Jason come re degli slasher, un genere che, con le sue regole ferree (sesso = morte, il “final girl” sopravvive), è quasi un rito collettivo.
Guardatelo per la nostalgia, per le uccisioni creative, per quella maschera che è entrata nella cultura pop. Guardatelo con amici, ridendo delle assurdità e sobbalzando ai jump scare. È un film che non si prende sul serio, e per questo è perfetto. Come direbbe un personaggio del film, prima di essere inevitabilmente affettato: “Andrà tutto bene, no?”. Spoiler: non andrà bene, ma vi divertirete un mondo.



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