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lunedì 5 maggio 2025

Il mio nome è Remo Williams: L’arte del Sinanju e l’eredità di un cult dimenticato

 Se vi dico Remo Williams, probabilmente molti di voi alzeranno un sopracciglio, incerti se si tratti di un eroe d’azione anni ’80, di un cugino lontano di James Bond o di un tizio che fa magie con le arti marziali. Eppure, Il mio nome è Remo Williams (Remo Williams: The Adventure Begins, 1985) è uno di quei film che, pur non avendo mai raggiunto lo status di blockbuster, ha scavato un posticino nel cuore di chi ama il cinema d’azione con un pizzico di follia e un’estetica gloriosamente vintage. È un mix di spionaggio, arti marziali e umorismo sfacciato che, nonostante i suoi difetti, merita di essere riscoperto. Preparatevi a un viaggio in un’epoca in cui i film d’azione non avevano bisogno di CGI per farti credere che un uomo potesse schivare proiettili o camminare sul cemento fresco.

La premessa: un eroe improbabile per un mondo sporco
Immaginate un poliziotto newyorkese, Sam Makin, che vive la sua vita tra inseguimenti e ciambelle (ok, forse sto stereotipando). Un giorno, il governo decide che è l’uomo giusto per un esperimento estremo: fingere la sua morte, dargli una nuova identità – Remo Williams – e trasformarlo in un’arma vivente per missioni che l’America non può ufficialmente ammettere. È il classico trope dell’eroe riluttante, ma con una svolta: Remo non è un superuomo. È un tizio qualunque, con un sarcasmo tagliente e un’etica che lo rende sospettoso di chiunque, specialmente dei suoi nuovi “datori di lavoro”.
Il film, diretto da Guy Hamilton (che aveva già firmato Goldfinger), si basa sulla serie di romanzi The Destroyer di Warren Murphy e Richard Sapir. La trama è semplice ma efficace: Remo viene reclutato da un’agenzia segreta, la CURE, che opera al confine della legalità per “ripulire” il mondo da minacce che il governo non può toccare. Ma c’è un problema: l’organizzazione stessa puzza di corruzione. Prima di diventare il killer perfetto, Remo dovrà capire di chi fidarsi – e imparare a sopravvivere.
Chiun e il Sinanju: il cuore pulsante del film
Qui entra in scena il vero asso nella manica del film: Chiun, il maestro coreano di arti marziali interpretato da un magistrale Joel Grey. Chiun non è solo un mentore; è un mix di saggezza orientale, arroganza comica e affetto burbero che ruba ogni scena. È lui a insegnare a Remo il Sinanju, un’arte marziale fittizia che, secondo la mitologia del film, è la madre di tutte le discipline di combattimento. Il Sinanju permette a Remo di fare cose assurde: muoversi senza fare rumore, camminare sull’acqua, addirittura schivare proiettili in volo. È il tipo di esagerazione che solo negli anni ’80 poteva sembrare plausibile, e il film la abbraccia senza vergogna.
Le scene di addestramento tra Remo (Fred Ward, perfetto nel ruolo dell’eroe scettico ma determinato) e Chiun sono il cuore del film. Non solo perché sono divertenti – Chiun insulta Remo chiamandolo “faccia pallida” o lamentandosi della sua mancanza di grazia – ma perché costruiscono un rapporto che va oltre il cliché maestro-allievo. C’è un’umanità inaspettata in questi momenti, che bilancia l’azione con un tocco di calore. E sì, le coreografie delle arti marziali sono spettacolari per l’epoca, con un mix di realismo e teatralità che rende ogni combattimento un piacere da guardare.
Un cult mancato e un’eredità frammentata
Il mio nome è Remo Williams aveva tutte le carte in regola per diventare un franchise. Il film si chiude con un “to be continued” che prometteva nuove avventure, e fu persino girata una puntata pilota per una serie TV. Purtroppo, il pubblico non rispose come sperato, e la serie non vide mai la luce. Il film incassò poco rispetto al budget, e il sogno di un sequel ufficiale svanì. Eppure, la sua influenza è innegabile. L’idea di un eroe che opera nell’ombra per un’organizzazione ambigua ha ispirato molti action successivi, e il mix di umorismo e arti marziali richiama film come Beverly Hills Ninja o persino Deadpool per il suo tono irriverente.
Curiosamente, nel 2001 è spuntato un “sequel non ufficiale” intitolato Remo Williams: The Prophecy. Non aspettatevi un capolavoro: è un progetto a basso budget che riutilizza filmati scartati del film originale, con un nuovo attore per Remo ma con Chiun ancora presente. È più un curiosità per fan hardcore che un vero seguito, e circola online come una reliquia di un’epoca in cui i fan facevano di tutto per mantenere viva una storia.
Perché guardarlo oggi?
Viviamo in un’era di supereroi in CGI e trame ipercomplesse, ma Il mio nome è Remo Williams ci ricorda la bellezza del cinema d’azione puro, senza fronzoli. È un film che non si prende troppo sul serio, ma non scivola mai nel ridicolo. Fred Ward porta un carisma ruvido che lo rende credibile sia come eroe che come uomo comune, mentre Joel Grey è semplicemente indimenticabile. La regia di Hamilton dà al film un ritmo incalzante, e la fotografia cattura un’America anni ’80 che sembra quasi mitologica.
Se amate i film che mescolano azione, umorismo e un pizzico di cuore, Remo Williams è una gemma da riscoprire. Magari non vi insegnerà a schivare proiettili, ma vi farà passare due ore con un sorriso stampato in faccia. E chissà, forse vi verrà voglia di cercare online quel misterioso sequel del 2001 – ma non dite che non vi ho avvertito.



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