Mentre le infrastrutture energetiche ucraine vengono metodicamente azzerate – su entrambi i fronti, va detto, in una spirale di distruzione che non risparmia nessuno – la vera partita non si gioca più solo sul campo. Si gioca nei corridoi del Cremlino, dove Sergei Lavrov orchestra la sua offensiva diplomatica, e, ancor più, nel caos autoreferenziale di Washington, paralizzata da uno shutdown da record.
L'Ucraina, ridotta "a zero" nella sua capacità produttiva, è oggi la vittima non solo dei missili russi, ma anche e forse soprattutto dell'inerzia occidentale e della furbizia strategica di Mosca.
Da un lato, abbiamo un Lavrov in grande spolvero. Il ministro degli Esteri russo non perde occasione per tentare di spaccare il fronte alleato. L'accusa è chiara: Bruxelles e Londra starebbero "spingendo" gli Stati Uniti, recalcitranti, verso il "partito della guerra", sabotando la via diplomatica. È una narrativa affascinante quanto tossica, progettata per dipingere Washington come una pedina nelle mani degli "istinti pirateschi" europei (parole sue, riferite alla questione degli asset russi).
Eppure, è la stessa Russia che, mentre accusa, lascia la porta socchiusa. Lavrov si dice pronto a incontrare l'omologo Marco Rubio, minimizzando le tensioni e parlando di "necessità di comunicazione regolare". Un doppio gioco classico: minacciare ritorsioni "appropriate" sul fronte economico (gli asset congelati in Euroclear) e denunciare la "rapina" occidentale, mentre si cerca un dialogo diretto con la "nuova amministrazione" americana, bypassando gli "elementi irritanti" ereditati. Lavrov sa che il tempo gioca a suo favore.
Perché dall'altro lato, a Washington, regna il caos.
L'analisi di Axios è impietosa e svela la tragica ironia della situazione. Mentre Lavrov accusa l'Europa di trascinare gli USA in guerra, gli Stati Uniti non sono nemmeno in grado di consegnare le armi già promesse. Oltre cinque miliardi di dollari in sistemi d'arma (Himars, Aegis) diretti ad alleati NATO come Polonia e Danimarca – e da questi, presumibilmente, da girare a Kiev – sono bloccati.
Non da un veto russo. Non da una decisione strategica. Ma da uno shutdown. Quaranta giorni di paralisi amministrativa interna hanno bloccato gli uffici del Dipartimento di Stato che gestiscono le esportazioni militari.
È il trionfo dell'assurdo. La macchina bellica occidentale, il pilastro del sostegno a Kiev, non è inceppata dal nemico, ma dalla propria incapacità di approvare una legge di bilancio.
La situazione è drammatica. La Russia prosegue la sua guerra d'attrito energetico, sapendo che ogni giorno di shutdown americano è una vittoria tattica per Mosca. Lavrov può permettersi di alzare la voce sugli asset, dipingendo l'UE come un "colonizzatore" inaffidabile, perché vede l'alleato principale di Kiev impantanato nelle proprie sabbie mobili procedurali.
Ciò che emerge da questo incrocio di notizie non è solo la brutalità del conflitto energetico, ma la fragilità del sostegno occidentale. Un sostegno ostaggio di uno shutdown interno e di una diplomazia russa che, cinicamente ma efficacemente, sfrutta ogni singola crepa. Kiev è al freddo, e a Washington si spengono le luci dell'amministrazione. Difficile immaginare uno scenario peggiore.
(Stefano Donno)





