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domenica 9 novembre 2025

Kiev al Buio, Washington in Tilt: La Guerra Vinta dalla Paralisi - ecco cosa ne penso

 Mentre le infrastrutture energetiche ucraine vengono metodicamente azzerate – su entrambi i fronti, va detto, in una spirale di distruzione che non risparmia nessuno – la vera partita non si gioca più solo sul campo. Si gioca nei corridoi del Cremlino, dove Sergei Lavrov orchestra la sua offensiva diplomatica, e, ancor più, nel caos autoreferenziale di Washington, paralizzata da uno shutdown da record.

L'Ucraina, ridotta "a zero" nella sua capacità produttiva, è oggi la vittima non solo dei missili russi, ma anche e forse soprattutto dell'inerzia occidentale e della furbizia strategica di Mosca.

Da un lato, abbiamo un Lavrov in grande spolvero. Il ministro degli Esteri russo non perde occasione per tentare di spaccare il fronte alleato. L'accusa è chiara: Bruxelles e Londra starebbero "spingendo" gli Stati Uniti, recalcitranti, verso il "partito della guerra", sabotando la via diplomatica. È una narrativa affascinante quanto tossica, progettata per dipingere Washington come una pedina nelle mani degli "istinti pirateschi" europei (parole sue, riferite alla questione degli asset russi).

Eppure, è la stessa Russia che, mentre accusa, lascia la porta socchiusa. Lavrov si dice pronto a incontrare l'omologo Marco Rubio, minimizzando le tensioni e parlando di "necessità di comunicazione regolare". Un doppio gioco classico: minacciare ritorsioni "appropriate" sul fronte economico (gli asset congelati in Euroclear) e denunciare la "rapina" occidentale, mentre si cerca un dialogo diretto con la "nuova amministrazione" americana, bypassando gli "elementi irritanti" ereditati. Lavrov sa che il tempo gioca a suo favore.

Perché dall'altro lato, a Washington, regna il caos.

L'analisi di Axios è impietosa e svela la tragica ironia della situazione. Mentre Lavrov accusa l'Europa di trascinare gli USA in guerra, gli Stati Uniti non sono nemmeno in grado di consegnare le armi già promesse. Oltre cinque miliardi di dollari in sistemi d'arma (Himars, Aegis) diretti ad alleati NATO come Polonia e Danimarca – e da questi, presumibilmente, da girare a Kiev – sono bloccati.

Non da un veto russo. Non da una decisione strategica. Ma da uno shutdown. Quaranta giorni di paralisi amministrativa interna hanno bloccato gli uffici del Dipartimento di Stato che gestiscono le esportazioni militari.

È il trionfo dell'assurdo. La macchina bellica occidentale, il pilastro del sostegno a Kiev, non è inceppata dal nemico, ma dalla propria incapacità di approvare una legge di bilancio.

La situazione è drammatica. La Russia prosegue la sua guerra d'attrito energetico, sapendo che ogni giorno di shutdown americano è una vittoria tattica per Mosca. Lavrov può permettersi di alzare la voce sugli asset, dipingendo l'UE come un "colonizzatore" inaffidabile, perché vede l'alleato principale di Kiev impantanato nelle proprie sabbie mobili procedurali.

Ciò che emerge da questo incrocio di notizie non è solo la brutalità del conflitto energetico, ma la fragilità del sostegno occidentale. Un sostegno ostaggio di uno shutdown interno e di una diplomazia russa che, cinicamente ma efficacemente, sfrutta ogni singola crepa. Kiev è al freddo, e a Washington si spengono le luci dell'amministrazione. Difficile immaginare uno scenario peggiore.

(Stefano Donno) 




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Mediterraneo corsaro. Storie di schiavi, pirati e rinnegati in età moderna di Giovanna Fiume (Carocci)

 Il Mediterraneo tra Cinque e Ottocento è uno spazio attraversato da uomini e merci, condiviso nei commerci, conteso militarmente e contrapposto religiosamente. Lungo le sue sponde si proietta la potenza degli Stati nazionali, degli imperi spagnolo e ottomano e dei rispettivi alleati; le sue rotte sono agitate dalle loro aspirazioni di conquista politica e di egemonia economica che lo rendono teatro della guerra da corsa e, in subordine, della pirateria. La corsa ha perciò cause politiche, militari, economiche, religiose; essa produce captivi, ridotti in schiavitù e redenti da istituzioni laiche o ecclesiastiche, mercanti, mediatori, familiari. Il riscatto diventa una lucrosa attività che intreccia una fitta rete finanziaria e genera un flusso di informazioni e conoscenze condivise. Per sottrarsi alla schiavitù molti rinnegano la propria fede: conversioni sincere o opportuniste, segrete o esibite, pongono il tema della liceità della dissimulazione e della libertà di fede. Ispirato dalle storie di migrazioni odierne, il libro descrive uomini e donne in movimento capaci di elaborare strategie, costruire relazioni, riconfigurare le proprie vite sullo sfondo di un Mediterraneo che mette alla prova i loro destini.




Delitto al Raphael Bar di Piero Grima (I Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno)

 Un pomeriggio di festa al Raphael Bar, il cuore pulsante della vita leccese, si tinge di rosso sangue. Durante il rinfresco per celebrare la sua recente elezione, il giovane e controverso deputato Bettino Borsi crolla a terra, trafitto da un'unica, letale pugnalata. L'assassino? Un'ombra inafferrabile, sfrecciata via a bordo di un monopattino elettrico tra gli invitati attoniti. A districare la matassa è chiamato il commissario Santoro che, tra un caffè e un pasticciotto, unisce un infallibile istinto investigativo a un profondo amore per la sua terra. Insieme al fido ispettore Lo Palco, Santoro dovrà immergersi in un torbido sottobosco di segreti inconfessabili: dai debiti di gioco alle logge massoniche, dalle rivalità politiche alle passioni clandestine di un uomo che collezionava tanto potere quanti nemici. Chi si nasconde dietro il casco integrale? Un rivale in affari, un marito tradito o una delle tante donne sedotte e abbandonate? In una Lecce assolata e piena di ombre, ogni testimone è un sospettato e la verità ha un sapore amaro, difficile da assaporare. Piero Grima torna con un nuovo, avvincente caso per il commissario Santoro, un giallo impeccabile dove il profumo della tradizione salentina si mescola all'odore acre del delitto


Medico infettivologo e scrittore, Piero Grima unisce il rigore della diagnostica alla passione del narratore. Dalla sua penna, affilata come un bisturi, nascono mondi in cui la suspense e la ricostruzione storica si intrecciano magistralmente. Nato a Bari ma salentino d'adozione, ha conquistato il pubblico del giallo con l'avvincente saga dell'ineffabile commissario Santoro, le cui indagini si snodano tra i dedali e le atmosfere uniche di Lecce e del suo territorio. La sua profonda conoscenza scientifica lo ha portato a curare un'intera collana saggistica sulle grandi epidemie che hanno segnato la storia dell'umanità. Negli ultimi anni, la sua sete di indagine lo ha spinto a esplorare i misteri del passato, firmando romanzi storici di grande successo che svelano i segreti e gli intrighi dietro la vita di giganti come Raffaello, Cartesio e Čajkovskij. Una voce unica nel panorama letterario italiano, capace di sezionare con la stessa precisione tanto un complesso caso di omicidio quanto le grandi cospirazioni della storia

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sabato 8 novembre 2025

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La Diga della Premier: Meloni, la 'Patrimoniale-Spauracchio' e i Conti Pubblici Sospesi - ecco cosa ne penso

L'ultimo ruggito via social del Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha la perentorietà di un editto: "Con la destra al Governo, [la patrimoniale] non vedrà mai la luce". Una dichiarazione, questa, che assolve a una duplice, e ormai classica, funzione della sua strategia comunicativa: rassicurare il proprio elettorato di riferimento e piantare una bandiera identitaria nel campo perennemente minato del fisco italiano.


Il casus belli, neanche a dirlo, è il riaffiorare del dibattito, o forse sarebbe meglio dire del "fantasma", di un'imposta sui grandi patrimoni, evocata da sinistra (sindacati e frange del PD) e subito trasformata dalla Premier nello "spauracchio" rosso da cui difendere l'Italia che produce.

Sia chiaro: la mossa è politicamente impeccabile. Nell'arena della propaganda, Meloni gioca d'anticipo, chiude i ranghi e offre ai suoi una narrazione semplice ed efficace: noi siamo il baluardo contro chi vuole "mettere le mani nelle tasche degli italiani". È un copione visto e rivisto, che paga sempre in termini di consenso immediato.

Ma un giornalista, e un Paese con i piedi per terra, non può fermarsi al tweet. Deve guardare oltre la trincea ideologica e chiedersi: a quale prezzo arriva questa "rassicurazione"?

Il punto critico non è tanto la legittima posizione liberista di un governo di destra, quanto l'assordante silenzio che accompagna questo "No". Mentre la Premier erige un muro contro un'ipotesi fiscale che (con l'attuale maggioranza) non ha comunque alcuna possibilità di concretizzarsi, i problemi strutturali del Paese restano lì, enormi e insoluti.

Dove troverà il Governo le risorse per finanziare una sanità pubblica che scricchiola, per rinnovare i contratti pubblici mangiati dall'inflazione, per sostenere una natalità in caduta libera o per avviare quella titanica opera di riduzione del debito pubblico che Bruxelles ci chiederà, prima o poi, di onorare?

La verità, scomoda ma necessaria, è che il "No" alla patrimoniale è una risposta facile. Ciò che manca, e che un leader di governo dovrebbe fornire, è la "proposta" complessa. Manca una visione organica su come redistribuire il carico fiscale, oggi palesemente sbilanciato sul lavoro dipendente e sulle imprese oneste, e su come scovare l'evasione monstre che sottrae ossigeno allo Stato.

La "patrimoniale", in Italia, è un tabù tossico. Evocarla (da sinistra) scatena il panico; demonizzarla (da destra) garantisce applausi. In mezzo, scompare ogni possibilità di un dibattito serio, laico e pragmatico su come far funzionare la leva fiscale in modo equo e non punitivo. Si può essere contrari alla patrimoniale e, al contempo, disegnare un sistema dove chi ha di più contribuisce di più, senza per questo affossare il risparmio o l'investimento? Certamente sì.

Ma la politica degli slogan non ama le sfumature. E così, mentre la Premier ci "rassicura" che lo spauracchio è stato rinchiuso nell'armadio, la montagna del debito continua a crescere e le disuguaglianze a scavare solchi. Il proclama di Giorgia Meloni non è una soluzione economica, è un'operazione di posizionamento politico. Utile per il prossimo sondaggio, molto meno per il futuro del bilancio dello Stato. (Stefano Donno)







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Anno 2069. Per Daniel Kane, unico responsabile all’interno della stazione spaziale Mars I, primo avamposto umano su Marte, il dovere si esaurisce in apparenza nel monitorare quotidianamente le funzioni operative e vitali della base, raccogliendo e inviando sulla Terra i dati raccolti sul pianeta, individuato come meta di una futura colonia sotterranea. Una monotona e solitaria routine che si infrange una sera nel riverbero del tramonto marziano, quando dalla piattaforma di osservazione, in lontananza, Daniel intravede una figura umana che pare osservarlo. Una presenza che, tuttavia, non può esistere, essendo lui il solo essere umano sul pianeta. E allora, che cosa ha visto Daniel nel chiaroscuro crepuscolare di quel mondo alieno? E perché ha la strana sensazione che quella visione sia legata a un’oscura minaccia che sembra incombere sulla stessa base? Da queste domande inizia a dipanarsi un’intricata tela di ragno che porterà Daniel, gradualmente, a prendere coscienza dell’incredibile responsabilità che grava sulle sue spalle. Ma soprattutto del pericolo che lui e tutta l’umanità stanno correndo contro un nemico subdolo e potenzialmente invincibile





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venerdì 7 novembre 2025

La Piazza Svuotata e il Palazzo Ironico: La Scommessa Persa dello Sciopero - ecco cosa ne penso

C'è un copione stanco che si ripete nel teatro della politica italiana, e la proclamazione dello sciopero generale della CGIL per il 12 dicembre ne è l'ultimo atto. Da un lato, Maurizio Landini che sventola la bandiera della "manovra ingiusta e sbagliata". Dall'altro, la premier Meloni che, anziché rispondere sul merito, impugna lo smartphone e affida ai social un'ironia tagliente sulla scelta del giorno: un venerdì.

In mezzo, c'è il Paese reale, quello che fatica ad arrivare a fine mese e che questo scontro, ormai più mediatico che sostanziale, rischia di lasciarlo solo.

Analizziamo i fatti. La CGIL ha ragioni da vendere, almeno sulla carta. Denuncia una legge di bilancio che non affronta l'emergenza numero uno: i salari. Mentre l'inflazione ha eroso il potere d'acquisto e il fiscal drag ha sottratto – secondo i calcoli del sindacato – 25 miliardi in tre anni dalle tasche di lavoratori e pensionati, il Governo risponde con misure insufficienti.

Non è solo Landini a dirlo. Le audizioni parlamentari, da Banca d'Italia all'Istat, hanno dipinto un quadro di crescita zero, se non di recessione tecnica, e hanno sollevato dubbi sulla capacità della manovra di ridurre le disuguaglianze. Anzi, secondo i critici, le accentua. La CGIL rincara la dose: "sei milioni di persone non riescono a curarsi" e le risorse, anziché andare a sanità e scuola, verrebbero dirottate altrove, persino verso il riarmo, come denuncia la sezione toscana del sindacato.

Questa è la piattaforma della protesta: salari, sanità, fisco equo. Temi concreti, che toccano la vita quotidiana.

E la risposta del Governo qual è? Non è un tavolo di crisi, non è una controproposta. È un tweet. "In quale giorno della settimana cadrà il 12 dicembre?", chiede ironica la Premier, alludendo al sospetto che lo sciopero sia solo un pretesto per allungare il weekend.

Questa strategia comunicativa è una lama a doppio taglio. Da un lato, è efficace: delegittima l'avversario, lo dipinge come parte di un'élite sindacale fuori dal tempo, più interessata alla "rivoluzione" da salotto che ai problemi reali, come già detto in passato dalla stessa Premier. Riduce una vertenza nazionale a una lamentela da "privilegiati".

Dall'altro lato, però, questa ironia è uno schiaffo a quella "maggioranza di questo Paese" che Landini cerca disperatamente di rappresentare. È la negazione stessa del problema. È dire, tra le righe, che chi protesta è un fannullone.

In questo scontro frontale, Landini vs. Meloni, entrambi rischiano di perdere. Landini rischia l'irrilevanza se lo sciopero (che, peraltro, non vede l'adesione unitaria di CISL e UIL) dovesse fallire, dimostrando che la cinghia di trasmissione tra sindacato e lavoratori si è rotta.

Ma il Governo rischia di più. Rischia di vincere una battaglia social perdendo il contatto con la realtà economica. L'ironia non accorcia le liste d'attesa e le battute sarcastiche non pagano le bollette. Il 12 dicembre, più che misurare la forza della CGIL, misurerà la profondità della frattura tra le promesse del Palazzo e le difficoltà della Piazza. E se la Piazza si sentirà non solo impoverita, ma anche derisa, l'inverno sociale sarà molto più rigido di quanto il Governo creda di poter gestire con un tweet. 

(Stefano Donno)





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