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sabato 18 ottobre 2025

Casa Keaton, Quando una Sitcom Lancia un Mito

L'utopia dei Tomahawk: il WSJ sogna l'escalation, Zelensky resta con i piedi per terra - ecco cosa ne penso

L'appello del Wall Street Journal all'amministrazione Trump non è un semplice consiglio di politica estera; è una cannonata editoriale sparata direttamente contro le mura della Casa Bianca. "Date i missili Tomahawk a Kiev", tuona l'influente quotidiano, rompendo l'ennesimo tabù nel dibattito sul sostegno militare all'Ucraina.

È una richiesta che, se accolta, segnerebbe il superamento di un Rubicone strategico. I Tomahawk non sono armi difensive; sono missili da crociera offensivi, con una gittata capace di colpire in profondità il territorio russo, ben oltre la linea del fronte.

L'analisi del WSJ è, nella sua brutalità, lineare: la Russia li teme, l'Ucraina ne ha bisogno per ribaltare le sorti di un conflitto impantanato, l'America li possiede. Sulla carta, l'equazione sembra funzionare. Ma la geopolitica, purtroppo per gli editorialisti da salotto, non è un esercizio di logica, è un brutale esercizio di realpolitik.

Ed è qui che emerge, quasi tragica, la figura di Volodymyr Zelensky. Il presidente ucraino, citato nel dispaccio, non nega l'efficacia dell'arma ("la Russia li teme"), ma chiude la porta a sogni troppo ambiziosi con una frase che vale più di mille analisi strategiche: "ma sono realista".

Cosa significa questo realismo? Significa che Zelensky, molto meglio del WSJ, ha compreso la natura dell'attuale amministrazione americana. Sa che Donald Trump è un "dealmaker" riluttante, ossessionato più dall'evitare la Terza Guerra Mondiale (o almeno, dall'evitare di pagarne il conto) che dal garantire una vittoria totale a Kiev.

L'uscita del Wall Street Journal, quindi, va letta più come una manovra di pressione interna all'establishment repubblicano – un tentativo di mettere Trump con le spalle al muro e forzarlo a scegliere tra la sua retorica da falco e la sua istintiva prudenza isolazionista – piuttosto che come una reale anticipazione strategica.

Il giornale gioca a fare il guerriero da tastiera, spingendo per un'escalation di cui non pagherebbe il prezzo. I Tomahawk sono l'arma definitiva per chi crede che questa guerra si possa vincere solo militarmente, senza curarsi delle linee rosse di un Cremlino sempre più imprevedibile.

Ma Zelensky non può permettersi questo lusso. Il suo "realismo" è quello di un leader che sa di non poter contare su assegni in bianco. Ha capito che, mentre Washington dibatte su armi quasi fantascientifiche per il suo esercito, il vero campo di battaglia, per lui, è politico: mantenere coeso un Occidente stanco e un'America distratta.

Mentre il WSJ invoca i Tomahawk, Kiev teme l'arrivo dell'inverno e la scarsità di munizioni d'artiglieria. C'è un abisso tra la guerra combattuta nelle redazioni di New York e quella vissuta nelle trincee vicino a Kharkiv. L'editoriale del WSJ è rumoroso, ma è il sobrio realismo di Zelensky che ci racconta la verità sul futuro di questo conflitto. (Stefano Donno)




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venerdì 17 ottobre 2025

La breve favolosa vita di Oscar Wao di Junot Díaz (Mondadori)

Già dal titolo si capisce che questo romanzo non avrà un lieto fine classico. Ma non importa. Perché la vita di Oscar – ribattezzato Wao da un amico che storpia il nome di Wilde – è davvero favolosa. Da favola letteraria, magica e realistica al tempo stesso.

«Un romanzo straordinario, vibrante, una prosa adrenalinica... Una delle voci più originali, irresistibili della narrativa contemporanea» – The New York Times

La sua nerdità adolescenziale vaporizzava ogni straccio di possibilità di incontrare l'amore. Tutti gli altri sperimentavano il terrore e la gioia delle prime cotte, dei primi appuntamenti, dei primi baci, mentre Oscar sedeva in fondo all'aula, dietro lo schermo del Dungeon Master, e guardava passare la sua adolescenza.

Oscar è un ghetto-nerd dominicano obeso e goffo, ossessionato dalle ragazze – che naturalmente lo ignorano –, dai giochi di ruolo e dai romanzi di fantascienza e fantasy. Prima che lui nascesse, sua madre, la formidabile Belicia Cabral, ha lasciato la Repubblica Dominicana per rifugiarsi nel New Jersey, dove Oscar vive sognando di diventare il nuovo Tolkiene, più di ogni altra cosa, di trovare l'amore. Per riuscirci, il nostro eroe deve sfidare il micidiale fukú, l'antica maledizione che da generazioni perseguita i membri della sua famiglia, condannandoli al carcere, alla tortura, a tragici incidenti e soprattutto alla sfortuna in amore. La prosa vivida e giocosa di Junot Díaz, che incarna la molteplicità di luoghi, culture e linguaggi che sta alla base del romanzo, ci trasporta dalle periferie americane contemporanee al sanguinario e insieme mitico regno del dittatore dominicano Rafael Leónidas Trujillo, mentre la storia del mite e sventurato giovane si intreccia a quella della sua gente e della sua terra, che finiranno per plasmarne il destino.

COME COMINCIA
Dicono che sia venuto dall'Africa, racchiuso nelle grida degli schiavi; che fosse l'anatema finale degli indiani Taino, pronunciato mentre un mondo moriva e un altro nasceva; o che fosse un demone, penetrato nella Creazione attraverso la porta dell'incubo dischiusa alle Antille. Fukú americanus, o più colloquialmente fukú: usato in genere per indicare qualche tipo di maledizione o sventura, e in particolare la Maledizione e la Sventura del Nuovo Mondo. Chiamato anche il fukú dell'Ammiraglio, perché l'Ammiraglio fu al contempo la sua principale levatrice e una fra le sue vittime europee più importanti; malgrado avesse "scoperto" il Nuovo Mondo, l'Ammiraglio morì povero e sifilitico, ossessionato da (dique) voci divine. A Santo Domingo, la Terra che Amava di Più (quella che Oscar, verso la fine, avrebbe chiamato la Ground Zero del Nuovo Mondo), il nome stesso dell'Ammiraglio è diventato sinonimo di entrambi i tipi di fukú, piccolo e grande; pronunciare quel nome ad alta voce, o anche solo sentirlo pronunciare, significa attirare la sventura su di sé e sui propri cari.
Comunque, al di là del nome e della provenienza, l'arrivo degli europei a Hispaniola fu l'evento che scatenò il fukú nel mondo, e da quel giorno siamo tutti nella merda. Santo Domingo potrà anche essere il Chilometro Zero del fukú, il suo porto d'ingresso, ma siamo tutti suoi discendenti, anche quelli che non sanno di esserlo




Il "Gamble" di Zelensky a Washington: i Tomahawk come arma a doppio taglio - ecco cosa ne penso

In una Washington sempre più epicentro di un complesso gioco di specchi geopolitico, la visita di Volodymyr Zelensky assume i contorni di un'audace, quasi disperata, scommessa. Sul tavolo dello Studio Ovale, di fronte a un Donald Trump imprevedibile e ondivago, il presidente ucraino non ha messo semplici richieste di aiuti, ma un vero e proprio game-changer: la fornitura di missili da crociera Tomahawk. Un'arma capace non solo di alterare gli equilibri sul campo di battaglia, ma di riscrivere le regole d'ingaggio dell'intero conflitto, con rischi di escalation che la diplomazia mondiale osserva con il fiato sospeso.

La richiesta di Zelensky è strategicamente comprensibile. Dopo anni di conflitto logorante, con una linea del fronte che si muove a fatica e con costi umani ed economici insostenibili, l'Ucraina cerca un vantaggio qualitativo. I Tomahawk, con la loro gittata in grado di colpire in profondità il territorio russo, rappresenterebbero una minaccia diretta ai centri di comando, alle linee di rifornimento e alle infrastrutture critiche del Cremlino. Non si tratta più solo di difendersi, ma di portare la guerra "a casa" dell'aggressore, alzando il costo del conflitto per Mosca a un livello potenzialmente intollerabile. È la logica della deterrenza offensiva, un tentativo di forzare la Russia a un negoziato da una posizione di forza.

Tuttavia, è proprio qui che l'azzardo si manifesta in tutta la sua pericolosità. La reazione di Donald Trump, che frena pubblicamente ("Servono anche a noi, non possiamo esaurire le scorte") dopo un colloquio telefonico con Vladimir Putin, è un capolavoro di ambiguità tattica. Da un lato, il tycoon usa la richiesta ucraina come leva negoziale nei confronti del Cremlino, agitando lo spettro di una fornitura missilistica per spingere Putin a più miti consigli e, forse, al vertice di pace che il fedele alleato Viktor Orbán si affretta a organizzare. Dall'altro, rivela la profonda riluttanza di una parte dell'establishment americano a un coinvolgimento così diretto che potrebbe trascinare la NATO in un confronto aperto con la Russia.

La critica fondamentale a questa mossa non risiede tanto nell'obiettivo, quanto nel metodo e nelle sue imprevedibili conseguenze. Fornire armi a così lungo raggio significa superare una linea rossa che le cancellerie occidentali, pur sostenendo Kiev, hanno finora evitato di calpestare. La reazione del Cremlino non sarebbe solo verbale. Un attacco con missili di fabbricazione americana su suolo russo potrebbe essere interpretato come un atto di guerra diretto da parte degli Stati Uniti, innescando una spirale di ritorsioni dagli esiti catastrofici.

In questo scenario, Zelensky si muove su un filo sottilissimo. La sua visita a Washington è un disperato tentativo di mantenere alta l'attenzione e il supporto americano, ma rischia di trasformarsi in un boomerang. Se Trump dovesse negare i Tomahawk, l'immagine di un'Ucraina lasciata parzialmente sola si rafforzerebbe, offrendo un vantaggio psicologico a Putin. Se, al contrario, dovesse concederli, il mondo si troverebbe sull'orlo di un'escalation che nessuno è realmente in grado di controllare. La partita a scacchi di Washington è più complessa che mai, e la prossima mossa potrebbe non lasciare spazio a ripensamenti. (Stefano Donno)




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Atene, Laboratorio del Futuro o Ritorno al Passato? La Grecia Sacrifica i Diritti sull'Altare della Flessibilità - ecco cosa ne penso

 Sembra una notizia proveniente da un'altra epoca, un dispaccio ottocentesco che racconta le lotte operaie per la dignità del tempo di vita. E invece arriva dal cuore dell'Europa del 2025, da quella Grecia che è stata culla della democrazia e, più di recente, epicentro della crisi finanziaria del continente. Il via libera del parlamento ellenico alla settimana lavorativa di sei giorni e alla giornata fino a 13 ore non è un semplice aggiustamento normativo: è uno strappo filosofico, un esperimento sociale i cui esiti ci riguarderanno tutti.

La Narrazione Ufficiale: Modernità e Competitività

Secondo la narrazione del governo conservatore di Kyriakos Mitsotakis, questa riforma è un baluardo di modernità. L'obiettivo dichiarato è duplice: attrarre investimenti stranieri, offrendo loro un quadro di "flessibilità" senza eguali in Europa, e combattere il sommerso, quel cancro economico che drena risorse allo Stato e lascia i lavoratori privi di tutele. La logica è quella, ormai nota, del neoliberismo più ortodosso: deregolamentare per liberare le energie del mercato. L'esecutivo assicura che si tratterà di una scelta "volontaria" del lavoratore, un accordo tra le parti per rispondere a picchi di produzione o esigenze eccezionali. Una visione seducente, se non fosse che la parola "volontarietà" assume un significato sinistro in un mercato del lavoro ancora fragile e con un potere contrattuale sbilanciato a favore delle imprese.

Dietro il Velo della Flessibilità: una Provocazione al Modello Sociale Europeo

Qui risiede la provocazione. Chiamare "flessibilità" la possibilità legale di lavorare 78 ore a settimana significa distorcere il linguaggio per mascherare la realtà. Non è flessibilità, è disponibilità totale. Non è un accordo tra pari, ma la ratifica di un rapporto di forza dove il lavoratore, spesso per necessità, non ha alternative se non accettare. I sindacati e le opposizioni greche, parlando di "ritorno al Medioevo", non usano un'iperbole casuale, ma fotografano la percezione di un'erosione di diritti dati per acquisiti da generazioni.

L'approvazione di questa legge trasforma la Grecia in un laboratorio. Un test per misurare fino a che punto si può spingere l'asticella della deregolamentazione in un Paese membro dell'Unione Europea. Siamo di fronte a un bivio cruciale: stiamo assistendo alla creazione di un'enclave a basso costo del lavoro all'interno dell'Eurozona, un modello competitivo basato non sull'innovazione tecnologica o sulla qualità della produzione, ma sulla compressione del costo e del tempo umano? Se l'esperimento avrà successo, ovvero se Atene riuscirà ad attrarre capitali significativi, quale governo europeo in difficoltà non sarà tentato di seguirne l'esempio?

L'Europa Guarda (o Dovrebbe Guardare)

Ciò che accade ad Atene, dunque, non rimane ad Atene. La legge greca è una sfida diretta al pilastro sociale europeo, quel complesso di norme e principi che dovrebbe garantire un equilibrio tra le esigenze del mercato e i diritti fondamentali dei cittadini, tra cui quello a un "giusto orario di lavoro". La Commissione Europea e le principali capitali osservano, per ora in un silenzio assordante. Ma il dibattito è aperto: il futuro della competitività europea si costruirà sul modello tedesco della qualità e dell'alta specializzazione, o scivolerà verso un "modello greco" basato sulla massima liberalizzazione a discapito delle tutele?

La scommessa del governo Mitsotakis è audace e rischiosa. Potrebbe rivelarsi un boomerang, alimentando tensioni sociali e un brain drain dei talenti non disposti a barattare la propria vita per il lavoro. Oppure potrebbe, drammaticamente, funzionare, creando un precedente devastante. La Grecia, ancora una volta, diventa lo specchio in cui l'Europa è costretta a guardare le proprie contraddizioni e a decidere quale futuro desidera costruire (Stefano Donno)




Il tradimento di Isengard. La storia della Terra di Mezzo di John R. R. Tolkien (Bompiani)

 Il settimo volume dell'opera magistrale di Tolkien, La storia della Terra di Mezzo, ripercorre la grande espansione del racconto che raggiunge nuove terre a sud e a est delle Montagne Nebbiose, in un susseguirsi di meraviglie: l'emergere di Lothlórien, degli Ent, dei Cavalieri di Rohan e di Saruman il Bianco nella fortezza di Isengard.


In abbozzi vergati a penna da Tolkien su ritagli di carta fanno così la loro prima comparsa Galadriel, gli albori della storia di Gondor e l'originale incontro tra Aragorn ed Éowyn, molto diverso dalla versione finale. Il tutto arricchito da un brogliaccio della mappa originale che doveva diventare la base della geografia della Terra di Mezzo, oltre a un'appendice sugli alfabeti runici e un'analisi delle rune utilizzate nel Libro di Mazarbul trovato accanto alla tomba di Balin a Moria



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L'arte della semplicità: scoprire la bellezza nascosta | Don Cosimo Schena | TEDxEnna

#ChaquePasEstUneVictoire - Negar Haeri - #PrixGisèleHalimi2023

(S1:EP5) Diletta Leotta: la forza della famiglia | Storie Oltre le Stories

Sandra e Raimondo Show, Canale 5, 1987

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mercoledì 15 ottobre 2025

Operazione Toscana: la Lega, il Generale e la Scommessa Impossibile - ecco cosa ne penso

La politica, a volte, somiglia più a una scacchiera impazzita che a un gioco di logica. E la mossa che Matteo Salvini starebbe per compiere in Toscana, candidando il generale Roberto Vannacci alla presidenza della Regione, ha tutto il sapore di un all-in spericolato, un ultimo, disperato tentativo di ribaltare un tavolo dove si è già perso troppo. L'indiscrezione, che circola con insistenza nei corridoi del Transatlantico, non è solo una notizia: è una dichiarazione d'intenti. O, forse, di resa.

La Toscana, la "rossa" per antonomasia, la culla di un'identità culturale e politica antitetica a quella incarnata dal Carroccio, diventa il laboratorio di una destra che ha smarrito la sua bussola. Archiviata la parentesi moderata e governista, la Lega sembra voler tornare alle sue origini più incendiarie, scommettendo tutto sulla polarizzazione estrema. E chi meglio di Vannacci, l'uomo che con un libro ha diviso l'Italia, per interpretare questo ruolo?

La scelta è tanto tatticamente astuta quanto strategicamente suicida. Astuta, perché il Generale parla a una pancia del Paese che si sente inascoltata, orfana di certezze e sedotta da parole d'ordine semplici e brutali. È un voto di pura protesta, viscerale, che non cerca un programma ma un simbolo. Vannacci è quel simbolo. Garantisce visibilità mediatica, infiamma il dibattito e compatta un elettorato che altrimenti si disperderebbe nell'astensionismo o verso lidi ancora più a destra.

Ma è una strategia suicida perché trasforma una competizione elettorale in un referendum culturale. In una terra come la Toscana, moderata e storicamente refrattaria agli estremismi, una candidatura così divisiva rischia di produrre l'effetto opposto a quello sperato: compattare il fronte avversario. Il centrosinistra, spesso impantanato in liti correntizie e incapace di trovare una sintesi, riceverebbe in dono il miglior nemico possibile, un "mostro" da sbattere in prima pagina per risvegliare dal torpore anche l'elettore più disilluso.

Viene da chiedersi, allora, quale sia il vero obiettivo di Salvini. Vincere la Toscana? Improbabile. Più verosimilmente, si tratta di una battaglia interna al centrodestra. Con questa mossa, il leader della Lega lancia una sfida diretta a Giorgia Meloni e a Fratelli d'Italia: il monopolio della destra radicale è ancora mio. È un tentativo di recuperare terreno, di dimostrare che la Lega è ancora capace di dettare l'agenda e di interpretare i sentimenti più radicali della società, anche a costo di sacrificare una regione sull'altare della propria sopravvivenza politica.

L'operazione Vannacci, quindi, non parla tanto del futuro della Toscana, quanto del presente travagliato della Lega. È il sintomo di una crisi di identità, la febbre di un partito che, non sapendo più cosa dire al Paese, decide di urlare. Ma in politica, come nella vita, chi urla più forte non è detto che abbia ragione. Anzi, spesso sta solo cercando di nascondere la propria disperata debolezza. (Stefano Donno)




Trump contro l'Europa: Un Isolazionismo Pericoloso o una Sveglia Necessaria? - ecco cosa ne penso

  In un mondo già segnato da tensioni globali, il documento sulla nuova National Security Strategy di Donald Trump, rilasciato in questi gio...