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martedì 25 marzo 2025

Se c’è un nome che ancora oggi fa tremare le fondamenta del teatro e del cinema italiani, quello è Carmelo Bene ...

Se c’è un nome che ancora oggi fa tremare le fondamenta del teatro e del cinema italiani, quello è Carmelo Bene. Non un semplice attore, non un regista qualunque, ma una forza della natura, un ribelle che ha ridefinito cosa significhi essere un artista. E al cuore della sua rivoluzione c’è un’idea tanto enigmatica quanto potente: la "macchina attoriale". Ma cosa diavolo significa? Preparatevi, perché stiamo per fare un viaggio nel caos geniale di un uomo che ha detto no a tutto ciò che il teatro tradizionale ci aveva insegnato.
Immaginate un attore. Ora dimenticatelo. Carmelo Bene non "recitava" nel senso classico del termine: non si immedesimava, non serviva il testo, non cercava applausi facili. Lui era il teatro. La "macchina attoriale" non è solo un neologismo figo che si è inventato – è una filosofia, un modo di essere. È l’attore che si fa strumento, che si amplifica fino a dissolversi, trasformandosi in un’entità che supera l’io, il personaggio, persino lo spettacolo stesso. Pensate a una macchina: precisa, instancabile, ma imprevedibile. Bene si vedeva così: un congegno vivente che smontava i classici – da Shakespeare a Pinocchio – per ricostruirli in un vortice di voce, gesto e pura energia.
Prendiamo il suo Amleto, per esempio. Non era l’Amleto malinconico che vi insegnano a scuola. Era un’esplosione sonora, un corpo disarticolato, una voce che si moltiplicava attraverso microfoni visibili – perché sì, li voleva in bella vista, quasi a gridare: "Guardate, questo è il trucco, ma il vero mistero è altrove!". La "macchina attoriale" qui si manifesta nel rifiuto di rappresentare: Bene non interpreta Amleto, lo distrugge. Legge il testo, lo frantuma, lo sovrappone a strati di phoné – quella vocalità che per lui era tutto – fino a rendere il principe di Danimarca un’eco di se stesso. È teatro senza spettacolo, come lo chiamava lui, un non-luogo dove lo spettatore non capisce più cosa sta vedendo, ma sente qualcosa di travolgente.
E poi c’è il cinema. Oh, il cinema di Carmelo Bene è un pugno nello stomaco. Film come Nostra Signora dei Turchi o Un Amleto di meno non sono "film" nel senso che intendiamo di solito. Sono esperimenti visivi e sonori dove la "macchina attoriale" si scontra con la pellicola stessa. Bene maltrattava il mezzo: bruciava fotogrammi, spezzava la narrazione, faceva della telecamera una complice nel suo massacro artistico. Non gli interessava raccontare storie – voleva che sentissimo il peso della sua presenza, la vibrazione della sua voce asincrona, il caos delle immagini che si ribellavano alla linearità.
Ma perché tutto questo? Perché Carmelo Bene era ossessionato dall’idea di andare oltre. Oltre il teatro borghese, oltre il cinema commerciale, oltre l’attore come servo del testo. La "macchina attoriale" è il suo grido di libertà: un attore che diventa autore, regista, scenografo, persino suono e luce. È un’idea che spaventa, perché ci chiede di abbandonare ogni certezza. Eppure, è anche un invito. A cosa? A perderci, a lasciarci possedere dall’arte senza cercare di capirla con la testa, ma vivendola col corpo.
Se non avete mai visto un suo lavoro, iniziate con Un Amleto di meno o cercate su YouTube la sua Lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli a Bologna – un evento che ha ipnotizzato migliaia di persone. Non sarà facile, ve lo dico subito. Bene non è per tutti: è ostico, eccessivo, a volte insopportabile. Ma è anche un genio che ci ricorda una cosa semplice e terribile: l’arte non è intrattenimento, è un’esperienza che ti cambia. La "macchina attoriale" non si è spenta con lui, nel 2002. Continua a ronzare, a provocarci, a chiederci: siete pronti a smettere di guardare e iniziare ad ascoltare? (s.d.)




Ufo Robot Goldrake

Se sei un appassionato di anime e manga, o anche solo un nostalgico degli anni d’oro della TV italiana, il nome Ufo Robot Goldrake (o Ufo Robot Grendizer, per i puristi) ti fa subito battere il cuore. Non è solo un’icona della fantascienza animata, ma un pezzo di storia che ha segnato l’immaginario di intere generazioni. E sai qual è la cosa più incredibile? È stato il primo mecha di Go Nagai a sbarcare in Italia, aprendo la strada a un’invasione di robot giganti che ancora oggi ci fanno sognare.
Goldrake nasce come terzo capitolo della trilogia robotica di Go Nagai, dopo Mazinga Z e Grande Mazinga. Uscito in Giappone nel 1975, è arrivato da noi nel 1978, trasmesso su Rai 2 con un doppiaggio che, diciamocelo, è diventato leggenda. Ma cosa rende questo anime così speciale, al punto da essere ancora oggi un simbolo intramontabile?

Una Storia che Va Oltre i Robot
A differenza dei suoi predecessori, Goldrake non è solo un tripudio di pugni rotanti e raggi fotonici (anche se, ammettiamolo, quelle scene ci fanno ancora urlare di gioia). La storia segue Duke Fleed, un principe alieno in fuga dal suo pianeta distrutto dall’Impero di Vega. Rifugiatosi sulla Terra, si ritrova a difenderla pilotando il possente Goldrake contro nemici sempre più minacciosi. È una trama che mescola epica, dramma e un tocco di malinconia: Duke non è solo un eroe, è un esiliato che porta sulle spalle il peso di un passato tragico. Ti ci affezioni subito, perché è umano, nonostante arrivi dallo spazio.
E poi c’è Actarus – sì, lo so, in originale è Duke Fleed, ma per noi italiani sarà sempre Actarus. Quel nome, quella tutina rossa e il casco con la visiera alzata sono pura poesia. Ogni volta che saliva sul disco volante per entrare in Goldrake, era un momento di pura adrenalina. “Alabarda Spaziale!” non era solo un attacco, era un grido di libertà.
L’Innovazione di Go Nagai
Go Nagai, il genio dietro questa trilogia, con Goldrake ha fatto un salto di qualità. Dopo il successo di Mazinga Z e Grande Mazinga, poteva facilmente riciclare la formula: robot gigante, mostri da abbattere, fine. Invece, ha alzato l’asticella. Goldrake non è solo un mecha, è un’astronave trasformabile, un simbolo di tecnologia aliena che si scontra con la semplicità della vita terrestre. E poi ci sono i personaggi secondari – Maria, Hikaru, il dottor Umon – che aggiungono spessore a una storia già ricca.
Rispetto ai predecessori, Goldrake ha un tono più maturo. C’è la guerra, sì, ma anche la riflessione sul sacrificio e sulla pace. Forse è per questo che ha colpito così tanto: non era solo un cartone per bambini, ma un racconto che parlava a tutti.
Perché l’Italia lo Ama Ancora
Goldrake è stato il pioniere. Prima di lui, gli anime in Italia erano un territorio inesplorato. Quando è arrivato, con quelle animazioni spettacolari e una sigla italiana che ancora cantiamo a squarciagola (“Ufo Robot, si trasforma…”), ha aperto un varco. È stato il nostro primo amore robotico, e il fatto che sia arrivato prima di Mazinga Z e Grande Mazinga lo rende ancora più speciale. Ha insegnato a un’intera generazione cos’è la passione per gli anime.
E non dimentichiamo l’impatto culturale: modellini, fumetti, gadget. Goldrake era ovunque. Ancora oggi, a distanza di quasi 50 anni, basta nominarlo per vedere gli occhi di un fan illuminarsi. È un’eredità che non sbiadisce.
Un Classico da Riscoprire
Se non hai mai visto Goldrake, o se lo ricordi solo vagamente, ti consiglio di dargli una chance. Magari con un bel rewatch in lingua originale sottotitolata, per cogliere ogni sfumatura. E se sei un collezionista, cerca il manga originale o uno di quei fantastici modellini Soul of Chogokin – sono un sogno per ogni otaku.
Goldrake non è solo un anime, è un viaggio. È la storia di un eroe che combatte per un mondo che non è il suo, ma che impara ad amare. È Go Nagai al suo meglio, e per noi italiani, è un pezzo di casa.

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