Se c’è un nome che ancora oggi fa tremare le fondamenta del teatro e del cinema italiani, quello è Carmelo Bene. Non un semplice attore, non un regista qualunque, ma una forza della natura, un ribelle che ha ridefinito cosa significhi essere un artista. E al cuore della sua rivoluzione c’è un’idea tanto enigmatica quanto potente: la "macchina attoriale". Ma cosa diavolo significa? Preparatevi, perché stiamo per fare un viaggio nel caos geniale di un uomo che ha detto no a tutto ciò che il teatro tradizionale ci aveva insegnato.
Immaginate un attore. Ora dimenticatelo. Carmelo Bene non "recitava" nel senso classico del termine: non si immedesimava, non serviva il testo, non cercava applausi facili. Lui era il teatro. La "macchina attoriale" non è solo un neologismo figo che si è inventato – è una filosofia, un modo di essere. È l’attore che si fa strumento, che si amplifica fino a dissolversi, trasformandosi in un’entità che supera l’io, il personaggio, persino lo spettacolo stesso. Pensate a una macchina: precisa, instancabile, ma imprevedibile. Bene si vedeva così: un congegno vivente che smontava i classici – da Shakespeare a Pinocchio – per ricostruirli in un vortice di voce, gesto e pura energia.
Prendiamo il suo Amleto, per esempio. Non era l’Amleto malinconico che vi insegnano a scuola. Era un’esplosione sonora, un corpo disarticolato, una voce che si moltiplicava attraverso microfoni visibili – perché sì, li voleva in bella vista, quasi a gridare: "Guardate, questo è il trucco, ma il vero mistero è altrove!". La "macchina attoriale" qui si manifesta nel rifiuto di rappresentare: Bene non interpreta Amleto, lo distrugge. Legge il testo, lo frantuma, lo sovrappone a strati di phoné – quella vocalità che per lui era tutto – fino a rendere il principe di Danimarca un’eco di se stesso. È teatro senza spettacolo, come lo chiamava lui, un non-luogo dove lo spettatore non capisce più cosa sta vedendo, ma sente qualcosa di travolgente.
E poi c’è il cinema. Oh, il cinema di Carmelo Bene è un pugno nello stomaco. Film come Nostra Signora dei Turchi o Un Amleto di meno non sono "film" nel senso che intendiamo di solito. Sono esperimenti visivi e sonori dove la "macchina attoriale" si scontra con la pellicola stessa. Bene maltrattava il mezzo: bruciava fotogrammi, spezzava la narrazione, faceva della telecamera una complice nel suo massacro artistico. Non gli interessava raccontare storie – voleva che sentissimo il peso della sua presenza, la vibrazione della sua voce asincrona, il caos delle immagini che si ribellavano alla linearità.
Ma perché tutto questo? Perché Carmelo Bene era ossessionato dall’idea di andare oltre. Oltre il teatro borghese, oltre il cinema commerciale, oltre l’attore come servo del testo. La "macchina attoriale" è il suo grido di libertà: un attore che diventa autore, regista, scenografo, persino suono e luce. È un’idea che spaventa, perché ci chiede di abbandonare ogni certezza. Eppure, è anche un invito. A cosa? A perderci, a lasciarci possedere dall’arte senza cercare di capirla con la testa, ma vivendola col corpo.
Se non avete mai visto un suo lavoro, iniziate con Un Amleto di meno o cercate su YouTube la sua Lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli a Bologna – un evento che ha ipnotizzato migliaia di persone. Non sarà facile, ve lo dico subito. Bene non è per tutti: è ostico, eccessivo, a volte insopportabile. Ma è anche un genio che ci ricorda una cosa semplice e terribile: l’arte non è intrattenimento, è un’esperienza che ti cambia. La "macchina attoriale" non si è spenta con lui, nel 2002. Continua a ronzare, a provocarci, a chiederci: siete pronti a smettere di guardare e iniziare ad ascoltare? (s.d.)
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