Immaginatevi una sera di primavera, il 19 marzo 2025, con milioni di italiani seduti davanti alla tv, pronti a farsi trasportare da una voce familiare, un’energia travolgente e un messaggio che arriva dritto al cuore. Roberto Benigni è tornato su Rai 1 con “Il Sogno”, uno spettacolo che non solo ha conquistato 4,4 milioni di telespettatori con uno share del 28,1%, ma ha anche riacceso quella magia che solo lui sa creare. Non è stato solo un evento televisivo: è stato un abbraccio collettivo, un inno alla speranza e un viaggio emozionante nell’idea di un’Europa unita, raccontato con la poesia e l’ironia di un artista che non ha eguali.
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martedì 25 marzo 2025
Metti Roberto Benigni in una sera di marzo ...
Un sogno che parte da Ventotene
Benigni non ha scelto un tema qualunque. Ha preso il Manifesto di Ventotene – scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni in un momento di oscurità totale – e lo ha trasformato in una favola moderna. “Mentre intorno c’erano rovine, morti, cadaveri”, ha detto, quegli uomini hanno immaginato un’Europa di giustizia sociale, un sogno di pace e unione che oggi, nel 2025, risuona più attuale che mai. Con il suo stile inconfondibile, fatto di salti tra comicità e commozione, ha dipinto l’Europa non come un freddo progetto burocratico, ma come “l’esperimento democratico più emozionante” dell’umanità. E gli italiani, a giudicare dagli ascolti, si sono lasciati incantare.
Perché funziona? Perché Benigni parla a tutti. Non è un accademico che spiega, è un narratore che emoziona. Ha preso un’idea complessa – l’unità europea – e l’ha resa vicina, umana, quasi palpabile. Ha salutato Papa Francesco con un “Guarisca presto”, ha criticato il nazionalismo (“il carburante di tutte le guerre”) e ha chiuso con un appello ai giovani: “Siete la prima generazione transnazionale, nessuno vi convincerà a tornare indietro”. È stato un mix di storia, sogno e un pizzico di utopia, servito con quella leggerezza che solo lui sa dosare.
Il contesto politico e geopolitico: un messaggio necessario
Non è un caso che “Il Sogno” arrivi proprio ora. Nel 2025, l’Europa è un tema caldo, attraversata da tensioni geopolitiche, dall’instabilità ai confini orientali con la guerra in Ucraina ancora sullo sfondo, alle sfide interne di un’Unione che fatica a trovare una voce unica. In Italia, il governo Meloni – che proprio quel giorno era a Ventotene – guida un Paese diviso tra euroscetticismo e voglia di riscatto. Benigni non fa politica diretta, ma il suo spettacolo è un atto politico nel senso più nobile: un invito a guardare oltre, a credere in qualcosa di più grande. E lo fa senza sermoni, ma con la forza di un racconto che tocca corde profonde.
Il successo di ascolti non è solo nostalgia per il Benigni di “La vita è bella” o delle serate su Dante. È il bisogno di un messaggio positivo in un momento di incertezza. Mentre i talk show si accapigliano e i social si riempiono di polemiche, lui offre una boccata d’aria fresca, un “sì” alla possibilità di un futuro migliore. E la Rai, spesso criticata per essere in balia di logiche politiche, con questo show ritrova la sua vocazione: unire, emozionare, far pensare.
La magia di Benigni: perché funziona ancora
Cosa rende “Il Sogno” un grande show? Prima di tutto, lui. Benigni è un unicum: un comico che sa essere profondo, un poeta che non ha paura di far ridere. Per oltre due ore, senza pause pubblicitarie, senza gobbo, ha tenuto il palco da solo – con la scenografia semplice e la musica di Nicola Piovani a fare da cornice – dimostrando che la televisione può ancora essere arte. Poi c’è il ritmo: alterna battute (“Elon Musk vota Giorgia!”) a momenti di commozione pura, come quando parla della pace universale come un traguardo inevitabile. Infine, c’è il pubblico: gli italiani lo amano perché in lui vedono un po’ se stessi, quel mix di ironia, passione e resilienza.
Il confronto con “Lo Show dei Record” di Gerry Scotti su Canale 5 (1,7 milioni, 11,9% di share) è impietoso. Non è solo una questione di numeri: Benigni offre un’esperienza, non un semplice passatempo. È tornato dopo dieci anni dai “Dieci Comandamenti” e ha dimostrato che la sua formula – cultura pop, cuore e un pizzico di anarchia – è ancora vincente. #RobertoBenigni, #IlSogno, #Rai1, #SognoEuropeo, #Ventotene, #EuropaUnita, #Benigni2025, #TVItaliana, #PaceUniversale, #CulturaPop
Jim Morrison è ancora vivo?
Jim Morrison è ancora vivo? Un documentario riapre il mistero
Immaginate questa scena: è una sera qualunque, state scorrendo il catalogo di Apple TV+ in cerca di qualcosa da guardare, e vi imbattete in un titolo che vi fa sgranare gli occhi: Before the End: Searching for Jim Morrison. Un documentario in tre episodi che non si limita a raccontare la vita del leggendario frontman dei Doors, ma osa lanciare una bomba: e se Jim Morrison non fosse morto nel 1971? E se, invece, vivesse tranquillo, sotto il nome di Frank, in una cittadina come Syracuse, nello stato di New York? Sì, avete letto bene. Preparatevi a un viaggio tra mistero, teorie ardite e un pizzico di incredulità.
Il mito di Jim Morrison: una morte avvolta nel mistero
Partiamo dalle basi, perché per capire questa storia bisogna conoscere il contesto. Jim Morrison, il "Re Lucertola", è stato molto più di un cantante: era un poeta, un provocatore, un’icona degli anni ’60. Con i Doors ha scritto canzoni che ancora oggi risuonano come inni di ribellione e malinconia. Ma la sua vita si è interrotta bruscamente il 3 luglio 1971, a soli 27 anni, in un appartamento di Parigi. La versione ufficiale parla di un’insufficienza cardiaca, forse legata all’abuso di alcol o droghe. Nessuna autopsia, però, perché la legge francese non la richiedeva in assenza di sospetti di omicidio. Il corpo fu sepolto in fretta al cimitero di Père-Lachaise, e da lì è nato il mito: un’uscita di scena tanto enigmatica quanto il personaggio stesso.
Fin da subito, però, i fan hanno iniziato a dubitare. Nessun referto ufficiale, poche testimonianze, e quel corpo sepolto senza troppe domande… È davvero morto? O ha orchestrato una fuga geniale per sfuggire alla fama, alla pressione, forse alla legge? È il tipo di teoria che farebbe sorridere chiunque, ma che con Morrison sembra quasi plausibile. Dopotutto, stiamo parlando di un uomo che viveva al confine tra realtà e sogno.
Il documentario: una tesi folle o un’intuizione geniale?
Ecco dove entra in gioco Before the End: Searching for Jim Morrison. Questo documentario, diretto dal superfan Jeff Finn, non è il solito racconto biografico. Finn, che da 39 anni studia la vita di Morrison, non si accontenta di ripercorrere i successi dei Doors o di analizzare i testi di Light My Fire. No, lui va oltre: sostiene che Jim sia vivo, e che abbia assunto l’identità di un certo Frank, un anonimo operaio di manutenzione a Syracuse.
La tesi è semplice ma audace. Secondo Finn, Morrison avrebbe conosciuto questo Frank – un uomo con lo stesso nome completo, James Douglas Morrison – e ne avrebbe preso l’identità dopo la sua morte, avvenuta nel 2015. Come prove? Un segno sul naso di Frank, una cicatrice nello stesso punto dove Jim aveva un neo; una foto del 2013 che lo ritrae con John Densmore, batterista dei Doors; e alcune ex fidanzate di Morrison che, vedendo l’immagine di Frank, sarebbero scoppiate in lacrime per la somiglianza. Aggiungete il fatto che il numero di previdenza sociale di Morrison risulterebbe ancora attivo nello Stato di New York, e il gioco è fatto: un caso che sembra uscito da un film di spionaggio.
Ragioniamoci sopra: ha senso tutto questo?
Ok, fermiamoci un attimo e ragioniamo come farebbe un amico davanti a una birra. È una storia affascinante, certo, ma regge? Da un lato, Morrison era un tipo eccentrico, capace di gesti estremi. Fuggire da tutto, cambiare vita, sparire nel nulla… non è del tutto fuori dal suo carattere. La mancanza di un’autopsia e i dettagli vaghi della sua morte alimentano il dubbio. E poi c’è quell’aura di mistero che lo ha sempre circondato: chi non vorrebbe credere che un’icona così non si sia spenta a 27 anni, ma abbia scelto di rifarsi una vita?
Dall’altro lato, però, ci sono un sacco di "ma". Syracuse? Davvero? Con tutto il rispetto per questa città, non è esattamente il posto dove ti immagini un rockstar in pensione. Neve, freddo, una vita tranquilla da operaio… non suona molto da Jim Morrison, no? E poi, le prove: una cicatrice, una foto, qualche lacrima. È abbastanza per riscrivere la storia? Finn stesso ammette che Frank, intervistato nel documentario, nega di essere Morrison, pur con risposte vaghe che lasciano spazio all’immaginazione. È un superfan con una somiglianza casuale o il più grande bluff della storia del rock?
Perché ci piace crederci (anche solo un po’)
Ammettiamolo: c’è qualcosa di irresistibile in questa teoria. Forse perché Jim Morrison non era solo un cantante, ma un simbolo. La sua morte a 27 anni lo ha consacrato nel "Club dei 27" – insieme a Hendrix, Joplin, Cobain – e lo ha reso immortale. Ma l’idea che possa essere ancora là fuori, a vivere una vita normale, ci fa sognare. È come se una parte di quegli anni ’60 ribelli potesse ancora respirare, lontano dai riflettori.
E poi c’è il fascino del mistero irrisolto. In un mondo dove tutto è documentato, fotografato, condiviso, l’idea di un segreto così grande ci cattura. Anche solo per un momento, ci piace pensare: "E se fosse vero?". È lo stesso motivo per cui si parla di Elvis vivo a Las Vegas o di Tupac nascosto a Cuba. Sono storie che tengono viva la leggenda.
Vale la pena guardarlo?
Tornando al documentario, una cosa è sicura: Before the End non lascia indifferenti. Non è un capolavoro cinematografico – qualcuno lo ha definito un po’ amatoriale – ma è un viaggio curioso, appassionato, a tratti assurdo. Se amate i Doors, se vi intrigano i misteri, o se semplicemente poter passare tre ore a chiedervi "Ma dai, davvero?", potrebbe valere la pena. Non aspettatevi risposte definitive, però: alla fine, sta a voi decidere se crederci o riderci sopra.
Io? Beh, non sono del tutto convinto. Ma se mai mi capitasse di passare per Syracuse, magari darei un’occhiata in giro. Chissà, potrei incrociare un tizio con una cicatrice sul naso e un’aria vagamente familiare. E, nel dubbio, gli chiederei: "Scusa, Frank… sai per caso cantare Riders on the Storm?".
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