Create e trattenete nella mente l'immagine di un poeta che sfreccia su un motorino scassato per le stradine polverose di Maglie, nel cuore del Salento, con una penna in mano e un ghigno beffardo sul viso. Immaginate un uomo che scrive cartoline al vetriolo ai potenti dell’editoria milanese e che, tra un sogno annotato al risveglio e un bicchiere di vino, si ritira in un bosco di querce a contemplare la vita, la morte e tutto ciò che sta nel mezzo. Questo era Salvatore Toma, un poeta che non si può incasellare, un “maledetto” per vocazione e un visionario per natura, scomparso troppo presto nel 1987, a soli 35 anni, ma ancora vivo nelle sue parole feroci, leggere e surreali.
Nato nel 1951, Toma è stato un ribelle gentile, un anarchico della parola che ha fatto della sua breve esistenza un manifesto di libertà. La recente pubblicazione di Poesie (1970-1983), curata da Luciano Pagano per Musicaos Editore, ci restituisce l’intera parabola creativa di un autore che la Puglia può annoverare tra i suoi giganti del Novecento. Non è solo il poeta della morte – anche se il tema lo attraversa come un filo rosso, potente e ineludibile – ma un cantore dell’amore, della natura, del sogno e dell’ironia. Leggerlo oggi significa scoprire un uomo che, con un linguaggio diretto e cangiante, sapeva passare dal sarcasmo alla tenerezza, dalla rabbia alla visione onirica, senza mai perdere il contatto con la terra che lo ha generato.
Pensate alla sua Ultima lettera di un suicida modello, scritta nel 1979: “Farsi fuori è un modo di vivere / finalmente a modo proprio / a modo vero”. È un pugno nello stomaco, un grido che sfida le convenzioni e rivendica il coraggio di scegliere, anche nella fine. Eppure, non fermatevi qui. Toma è anche il poeta che si prende gioco del mondo, che immagina di passare col rosso per attirare l’attenzione di Maria Corti – la studiosa che lo scoprì e lo pubblicò su Alfabeta – o che si perde nei suoi sogni, da cui nascevano versi caravaggeschi, pieni di luce e ombra. Come disse Antonio Verri, suo amico e ammiratore, “Toma è un colossale bagno di trovate”, un autore che vola sopra le meschinità del quotidiano e colpisce con la sua verità.
E poi c’è la natura, il suo grande amore. In un’epoca in cui il mondo già scivolava verso il disastro ecologico, Toma sognava di diventare “albero e radice”, “terra contesa”, “fiore o montagna”. La sua visione panteistica, quasi profetica, ci parla oggi più che mai: un invito a guardare oltre l’umano, a ritrovare un legame profondo con ciò che ci circonda. Non è morto, come scrisse Antonio Errico sul Quotidiano di Lecce nel 1987: “Pensate solo che non è più su questa terra. Perché così lui vuole che si pensi”. E come dargli torto?
La leggenda di Toma – alimentata dalla sua vita isolata, dalle sue stravaganze, dal suo rifiuto di piegarsi al potere – non deve però oscurare la sua poesia. Poesie (1970-1983) ci offre un ritratto più completo rispetto al pur prezioso Canzoniere della morte curato da Maria Corti nel 1999. Qui troviamo un Toma giocoso, vitale, sarcastico, capace di mescolare registri e di sorprendere a ogni verso. È un poeta che merita di essere letto non solo come mito, ma come voce autentica, capace di parlare al nostro tempo con una forza che non si spegne.
Se vi capita tra le mani questo libro, lasciatevi trasportare. Non è solo un viaggio nella mente di un “Rimbaud del Sud”, ma un’esperienza che vi farà ridere, riflettere e, forse, guardare il mondo con occhi diversi. Perché Salvatore Toma, in fondo, non è mai stato solamente ed esclusivamente un poeta: è stato un modo di esserci, un respiro selvaggio che ancora ci chiama.
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