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martedì 28 ottobre 2025

Meloni, Orbán e l'illusione della "normalizzazione". A Palazzo Chigi va in scena il vertice dell'equilibrismo? - ecco cosa ne penso

 La stretta di mano a Palazzo Chigi c'è stata. E, come da copione, le foto ufficiali mostreranno due leader alleati, sorridenti, membri della stessa famiglia (o quasi) conservatrice europea. Ma l'incontro tra Giorgia Meloni e Viktor Orbán è tutto tranne che un vertice di routine. È il più plastico esempio della "doppia anima" della Premier italiana: atlantista di ferro a Washington e Bruxelles, ma costretta a gestire l'alleato più "scomodo" d'Europa, proprio mentre quest'ultimo si prepara a prendere il timone della Presidenza di turno del Consiglio UE.

Chiamatelo realismo, chiamatelo equilibrismo. A me pare, soprattutto, un esercizio di contenimento del danno.

Analizziamo il "menù" ufficiale, come riportato dalle cronache: competitività e difesa. Nomi altisonanti che nascondono voragini.

Sulla competitività, si parla di "dottrina Draghi", di come rendere l'UE più forte di fronte alla concorrenza cinese e americana. Un'ottima intenzione. Peccato che il modello economico di Orbán sia l'esatto opposto: un sistema illiberale, ultra-sovranista, drogato di fondi UE (quando non bloccati) e fondato sul cherry-picking delle regole del mercato unico. Chiedere a Orbán di guidare una riforma della competitività europea è come chiedere a una volpe di progettare un pollaio più sicuro.

Poi, la difesa comune. Qui l'ipocrisia raggiunge vette quasi artistiche. Meloni è, giustamente, la portabandiera del sostegno incrollabile a Kyiv. Orbán è, palesemente, il Cavallo di Troia di Vladimir Putin in Europa. Per mesi ha posto veti, rallentato sanzioni, bloccato aiuti militari, giocando sulla stanchezza dell'Occidente.

Come può Meloni "sondare le mosse" del leader ungherese su un piano di difesa comune, quando Orbán rema attivamente contro la strategia di difesa basilare dell'Unione, che oggi si chiama Ucraina?

Il punto non è cosa c'era sul tavolo, ma cosa c'era sotto il tavolo.

La vera partita non è la competitività, ma il potere. Orbán sta per diventare Presidente di turno del Consiglio UE. È un ruolo che, sebbene formale, offre un pulpito e un'agenda. Può rallentare, inquinare, deviare il dibattito. Meloni, da leader dell'ECR (Conservatori e Riformisti Europei), sa di aver bisogno dei voti di Fidesz (il partito di Orbán) per costruire la sua agognata maggioranza di destra a Strasburgo, magari tentando la storica ricucitura con il PPE.

Il vertice di Chigi non è servito a "smarcare Orbán dall'abbraccio di Putin", come qualche ingenuo stratega forse spera. Quell'abbraccio non è tattico, è strategico; per Orbán è sopravvivenza politica ed energetica.

No, questo incontro è servito a Meloni per tastare il polso all'incendiario prima di consegnargli i fiammiferi della Presidenza UE. È il tentativo disperato di ottenere rassicurazioni minime, di tracciare qualche linea rossa, sapendo già che Orbán le ignorerà alla prima occasione utile.

L'illusione della "normalizzazione" di Orbán è un gioco pericoloso che l'Europa ha già giocato e perso. L'ospite "scomodo" non è venuto a Roma per convertirsi sulla via dell'atlantismo. È venuto a farsi legittimare dalla leader italiana più forte del momento, per poi tornare a Budapest e continuare il suo metodico sabotaggio dall'interno.

Quella di Giorgia Meloni non è diplomazia. È gestione del rischio. Ma il rischio, con Orbán, non si gestisce: si subisce (Stefano Donno)








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