C’è un silenzio diverso oggi sulle rive del Lago Lemano. Non è la quiete diplomatica a cui la Svizzera ci ha abituati per decenni, ma il silenzio pesante, quasi soffocante, di chi trattiene il respiro prima dello schianto o della salvezza. Dopo quasi quattro anni di trincee fangose, droni kamikaze e retorica incendiaria, i negoziati sull’Ucraina sono ufficialmente iniziati. Finalmente, direbbero gli ottimisti. Troppo tardi e con troppe incognite, sussurrano i realisti.
Mentre leggete queste righe, i rappresentanti di Kiev sono seduti di fronte ai delegati dell'Unione Europea. La narrazione ufficiale parla di "sostegno incrollabile" e "garanzie di sicurezza". Ma chi conosce i corridoi di Bruxelles sa che la musica è cambiata. L’Europa del 2025 non è quella del 2022. È un continente stanco, segnato da crisi economiche interne e da un'opinione pubblica che, pur simpatizzando con l'aggredito, guarda con terrore al proprio portafoglio e alla stabilità energetica. L'incontro di oggi non serve a ribadire l'ingresso nell'UE — quello è il fumo — ma a definire il prezzo dell'arrosto: quanto territorio, quanta sovranità e quanto orgoglio Kiev dovrà ingoiare per fermare il tritacarne?
Ma il vero elefante nella stanza — o meglio, i due leoni nella savana — non sono a questo tavolo. La vera partita, quella cinica e brutale che deciderà le sorti dell'Est Europa, si giocherà lunedì, lontano dagli occhi lucidi dei delegati europei. Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan si incontreranno. Di nuovo.
Il "Sultano" turco si conferma, ancora una volta, l'unico vero vincitore diplomatico di questo conflitto infinito. Mentre l'Occidente si arrovellava su sanzioni e forniture, Ankara ha mantenuto aperto il canale, lucrando sulla sua posizione di ponte. L'incontro Putin-Erdoğan non sarà un tè tra amici, ma una spartizione di sfere d'influenza. Putin arriva a questo vertice con la consapevolezza che il tempo ha giocato a suo favore: ha scommesso sulla stanchezza dell'Occidente e, tragicamente, sembra aver avuto ragione. Non cerca una pace giusta; cerca una pace che ratifichi lo status quo, una "vittoria" da vendere al suo fronte interno.
L'Europa, in questo scenario, rischia di essere ridotta al ruolo di notaio pagante. Finanzieremo la ricostruzione di ciò che resterà dell'Ucraina, mentre le linee di confine verranno tracciate altrove, tra Mosca e Ankara, forse con un cenno distratto di Washington.
Quello che sta accadendo a Ginevra non è la fine della storia, né il trionfo della democrazia. È il ritorno prepotente della Realpolitik del XIX secolo, vestita con abiti moderni. Kiev si trova di fronte alla scelta più dolorosa della sua storia: sacrificare una parte del proprio corpo per salvare l'anima, o continuare a sanguinare fino al collasso sperando in un miracolo che il 2025 non sembra promettere.
Guardiamo a Ginevra con speranza, certo. Ma una speranza gelida, priva di illusioni. Perché se la guerra sta forse finendo, la pace che si profila all'orizzonte ha un sapore metallico, e non è quello della libertà, ma del compromesso necessario.
(Stefano Donno)

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