Oggi New York non vota solo per un sindaco. Vota per decidere se la più iconica metropoli capitalista del mondo sia pronta a scommettere il proprio futuro su un manifesto socialista. L'epicentro di questo sisma politico, anzi, di questo "uragano" che da mesi sferza l'establishment, ha un nome e un cognome: Zohran Mamdani.
Non commettiamo l'errore di sottovalutarlo. Lo hanno già fatto i dinosauri del Partito Democratico durante le primarie, e si sono ritrovati spazzati via dalla tempesta perfetta di grassroots e social media orchestrata da questo trentaquattrenne di origine ugandese, discepolo di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez.
Mamdani è un politico generazionale. Ha capito prima e meglio di tutti che il cuore del problema, in una città dove un affitto costa quanto lo stipendio di un operaio, non era la retorica anti-Trump, ma uno slogan molto più diretto: "New York è troppo cara".
Applausi. Analisi impeccabile. Ma è sulle ricette che l'utopia sbatte contro il muro della realtà.
L'agenda di Mamdani – autobus gratis per tutti, asili nido universali, blocco totale degli affitti – suona meravigliosa alle orecchie di una generazione che si sente tradita. È un sogno. Ma i sogni, a differenza dei bilanci comunali, sono gratis. Quando si chiede a Mamdani chi pagherà il conto di questa rivoluzione, la risposta è pronta, affilata come una ghigliottina fiscale: "L'1% più ricco".
Ed è qui che il giornalista professionista deve smettere di applaudire il fenomeno e iniziare a fare domande. Davvero si pensa di finanziare lo stato sociale di una metropoli da otto milioni di abitanti semplicemente tassando (ancora di più) chi ha già un piede fuori dalla porta, pronto a spostare residenza e capitali in Florida o New Jersey? Davvero si crede che le multinazionali che reggono l'economia cittadina resteranno a guardare mentre l'aliquota li equipara ai loro concorrenti, perdendo ogni vantaggio competitivo?
Il programma di Mamdani non è un piano di governo; è un atto di fede.
Ma il problema non è solo fiscale. È politico. Mamdani si è infilato da solo in vicoli ciechi che un politico navigato eviterebbe come la peste. La sua dichiarazione, poi rivelatasi falsa, sulla zia impaurita dopo l'11 Settembre, è stata una gaffe colossale in una città che su quella tragedia ha costruito la sua identità moderna. Una ferita ancora aperta, che l'aspirante sindaco ha grattato con insensibile superficialità ideologica. Le sue posizioni radicali sul Medio Oriente, come la promessa di "arrestare Netanyahu", possono eccitare la sua base, ma alienano l'elettorato moderato e la comunità ebraica, componenti essenziali di New York.
L'uragano, che oggi tocca terra, ha già vinto una battaglia: ha dimostrato che l'establishment è vulnerabile e che una nuova sinistra, giovane, multietnica e arrabbiata, esiste ed è pronta a prendersi tutto.
La domanda, mentre le urne si chiudono, non è se Mamdani vincerà. La domanda è cosa resterà di New York dopo che la tempesta sarà passata. Perché governare non è un video su TikTok. E una volta distrutto l'argine, l'acqua non chiede il permesso prima di inondare tutto (Stefano Donno)

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