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martedì 16 dicembre 2025

Il Natale gelido di Kiev: Zelensky traccia la linea rossa sul Donbass, ma l'Occidente ha già cambiato canale - ecco cosa ne penso

 Mentre Mosca chiude alla tregua natalizia e Orban sbarra la porta dell'Ue, il presidente ucraino si gioca l'ultima carta politica: la negazione della realtà territoriale. Ma tra le pressioni di Trump e i silenzi di Bruxelles, il "non riconoscimento" rischia di essere solo un epitaffio diplomatico.

C’è un’aria surreale, quasi di rassegnazione isterica, nelle dichiarazioni che rimbalzano oggi tra Kiev, Mosca e le capitali europee. Siamo al 16 dicembre 2025, un altro inverno di guerra sta mordendo le trincee, e la notizia non è tanto cosa sta accadendo sul campo, ma cosa non sta accadendo nelle cancellerie.

Volodymyr Zelensky, parlando oggi (forse con più disperazione che convinzione strategica), ha ribadito il suo mantra: "Non riconosceremo mai il Donbass come territorio russo". Una frase che, due anni fa, avrebbe scatenato applausi scroscianti a Bruxelles e Washington. Oggi, risuona quasi come un grido nel vuoto. Perché la realtà politica, cinica e brutale, sta andando da tutt’altra parte.

Il muro di Mosca e il regalo mancato Dall’altra parte del filo – un filo che ormai sembra tagliato – il Cremlino non si scomoda nemmeno per la retorica umanitaria. "Nessuna tregua di Natale", fanno sapere da Mosca. Putin non ha bisogno di regali sotto l'albero; è convinto che il tempo giochi a suo favore. La Russia chiude a qualsiasi concessione territoriale e nega persino i contatti sotterranei con Trump, mantenendo quella sua classica ambiguità imperiale: vogliono un accordo, sì, ma alle loro condizioni. Tradotto: ciò che abbiamo preso, è nostro.

L'Europa balbetta, Orban incassa E l'Europa? La nostra cara, vecchia Europa, che doveva essere il baluardo della democrazia, appare oggi più sfilacciata che mai. Mentre Zelensky cerca di tenere il punto morale sulla sovranità territoriale, l'Ungheria di Viktor Orban torna a fare il lavoro sporco (o pragmatico, a seconda dei punti di vista), frenando bruscamente sull'allargamento dell'Unione. "No all'Ucraina nell'Ue", tuona Budapest. Un veto che non è solo un capriccio magiaro, ma forse il segreto sospiro di sollievo di molte altre cancellerie europee che, stremate dai costi economici e politici del conflitto, non sanno più come uscire dal ginepraio.

Il convitato di pietra Sullo sfondo, incombe l'ombra lunga degli Stati Uniti. Le indiscrezioni dicono che Washington prema per il ritiro ucraino dal Donbass, spingendo per elezioni che sanno di exit strategy. Zelensky si trova così in una morsa micidiale: da una parte l'aggressore che non si ferma, dall'altra l'alleato che guarda l'orologio.

Dire "non riconosceremo il Donbass" è politicamente doveroso per un leader che ha chiesto al suo popolo sacrifici immensi. Ma in politica estera, il mancato riconoscimento legale di una perdita territoriale spesso diventa il prologo di un "conflitto congelato" decennale. Cipro insegna. La domanda scomoda che nessuno ha il coraggio di fargli in faccia, ma che tutti sussurrano nei corridoi di Bruxelles, è: Kiev può permettersi di barattare la terra per una pace che, forse, non arriverà mai?

In questo 16 dicembre, l'unica certezza è che la pace non è sotto l'albero. E mentre i leader giocano a scacchi con i confini sulle mappe, al fronte si continua a morire per quelle stesse linee che la diplomazia non riesce più a disegnare. Zelensky ha tracciato la sua linea rossa nella neve; resta da vedere se, al disgelo, ci sarà ancora qualcuno disposto a difenderla. (Stefano Donno)

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