Non chiamatela pace. Quello che si sta consumando in queste ore, tra i corridoi di Washington e le anticamere del Cremlino, non ha nulla a che fare con la nobile cessazione delle ostilità. È una transazione. Una brutale, cinica e spaventosa transazione immobiliare applicata alla geopolitica, dove l'Ucraina è l'asset svalutato da liquidare e la sicurezza europea è la clausola in piccolo che nessuno si è preso la briga di leggere.
Secondo quanto riportato da Paola Peduzzi sul Foglio, la "svendita" è iniziata e i banditori d'asta parlano inglese con accento americano. Non siamo di fronte alla Realpolitik di kissingeriana memoria, che per quanto gelida aveva una sua architettura strategica. Siamo di fronte alla Business-politik. Le missioni di Steve Witkoff in Russia e le manovre degli investitori vicini al cerchio magico di Trump attorno a gasdotti e progetti energetici svelano un quadro desolante: la sovrapposizione totale tra l'agenda di politica internazionale della Casa Bianca e il portafoglio di una ristretta cerchia di magnati.
L'errore madornale che le cancellerie europee continuano a commettere è pensare che Trump stia cercando una via d'uscita onorevole per l'Occidente. La realtà suggerita dalle indiscrezioni è ben diversa: il Presidente sta cercando un "deal". E in un accordo commerciale, se una parte è in difficoltà (Kyiv), la si costringe a vendere al ribasso per chiudere l'affare rapidamente. Il ritorno degli interessi energetici condivisi tra "amici" americani e oligarchi russi non è un effetto collaterale; è il lubrificante del meccanismo.
Mentre a Bruxelles si discute ancora di percentuali del PIL per la difesa e si rilasciano interviste sulla "resilienza" – come quella dell'ammiraglio Cavo Dragone – a Mosca e a Washington si ridisegnano le mappe. L'Ucraina viene spinta verso una pace che assomiglia a una capitolazione controllata, privata delle garanzie di sicurezza reali che solo l'ombrello NATO avrebbe potuto fornire. Ma il vero dramma, quello che dovrebbe tenere svegli la notte i leader da Berlino a Roma, è che svendendo Kyiv, Trump sta ipotecando la sicurezza dell'intero Vecchio Continente.
Se il principio che passa oggi è che la forza militare bruta, condita da opportuni accordi energetici retrostanti, può ridisegnare i confini europei con il beneplacito americano, allora Helsinki, Varsavia e Tallinn sono già meno sicure di ieri. L'Europa si scopre improvvisamente sola, nuda di fronte a un imperatore americano che non la guarda più come un'alleata, ma come un mercato da spremere o un fastidio da scaricare.
La svendita è in corso. E noi europei, immobili e divisi, rischiamo di essere non i compratori, e nemmeno i mediatori, ma parte della merce di scambio (Stefano Donno)

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