Immaginate un uomo di oltre novant’anni, chino su un tavolo ingombro di fogli, con pennarelli colorati che danzano veloci tra le sue mani. È Vittorio Balsebre, un artista che fino all’ultimo respiro, nel 2013, ha trasformato la sua abitazione-studio a Lecce (abitava di fronte alla Clinica dell'Accendino) in un vortice di segni, parole e visioni. Nato a Candelo, in Piemonte, nel 1916, e morto a Lecce dopo una vita itinerante e intensa, Balsebre è stato un esploratore instancabile dell’arte contemporanea. Oggi, 24 marzo 2025, mi ritrovo a scrivere di lui con un misto di ammirazione e curiosità, e di affetto, pensando al suo fare arte ( ... o poesia?) e ai nostri incontri a casa sua .
Conosco bene quel fremito che accompagna il parlare di un artista, ripercorrendo il suo tracciato biografico: l’attesa di scoprire cosa si cela dietro ogni opera, il dialogo silenzioso tra il fruitore e l’artista. Balsebre ci ha invitato a leggere il mondo con occhi nuovi, a cogliere il ritmo di un graffito o la leggerezza di una “Dattilopoesia” (penso anche alla lunga striscia cromo poetica di Paola Scialpi e Vittorio Balsebre esposta alla Scaletta di Matera e di cui ancora nessun critico se ne è occupato degnamente)
La sua storia è un intreccio di città e incontri. Da Montescaglioso in Lucania, dove ha respirato l’infanzia, a Roma, dove ha conosciuto maestri come Pietro Consagra e Giulio Turcato, fino a Matera, crocevia di artisti negli anni Cinquanta. Qui, tra i Sassi, ha assorbito l’energia di un luogo che vibra di storia e sperimentazione, frequentando il circolo “La Scaletta” e confrontandosi con figure come Carlo Levi. Poi Lecce, la sua casa adottiva dagli anni Sessanta, dove ha trovato terreno fertile per le sue esplorazioni: dall’adesione ai gruppi “Gramma” e “Ghen” all’amore per l’arte verbo-visiva, fino alla “Mail-Art” che spediva frammenti di genio in giro per il mondo.
Ma c’è un aspetto che mi colpisce particolarmente: la fotografia. Nei “Fotograffiti” degli anni Ottanta, Balsebre graffia pellicole di scarto e le trasforma in opere pittoriche, quasi a voler imprigionare il tempo che scorre. E poi ci sono le “foto astratte” e i “Segni e tracce tra Matera e Lecce”, che parlano di un legame profondo con i paesaggi che ha abitato. È un’arte che non si limita a rappresentare, ma che indaga, che si interroga. «Che cos’è un titolo? Può essere un pretesto… ma molti non lo sono», scriveva. E io, da appassionato di arte contemporanea, non posso che sorridere: quante volte ci siamo chiesti cosa significhi davvero un’opera?
Fino al 2008, a più di novant’anni, Balsebre lavorava ancora al computer, creando “graffiti” digitali con quella curiosità che non lo ha mai abbandonato e che voglio trasmettere con queste poche righe. (s.d.)


