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venerdì 31 ottobre 2025
giovedì 30 ottobre 2025
Giustizia, la Riforma Sbagliata: Separare per Comandare Meglio? - ecco cosa ne penso
La politica italiana vive di ETERNI RITORNI. Come una cometa che torna a intervalli regolari, riappare nel dibattito pubblico la "madre di tutte le riforme": quella della Giustizia. E, come sempre, la discussione si avvita non sui problemi reali del sistema — la lentezza esasperante dei processi, la carenza cronica di organico, la digitalizzazione a singhiozzo — ma su un'ossessione che sa di regolamento di conti: la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri.
Ancora una volta, ci viene presentata una presunta rivoluzione copernicana ammantata dalle migliori intenzioni. Ce lo dicono in tutti i modi: serve a garantire la "terzietà" del giudice, a creare un processo "ad armi pari", a smantellare un presunto "strapotere" delle procure. Parole d'ordine affascinanti, perfette per i titoli dei telegiornali. Ma un giornalista ha il dovere di grattare la vernice della propaganda.
E cosa troviamo sotto questa vernice? Troviamo il sospetto, neanche troppo velato, che l'obiettivo non sia una giustizia più efficiente, ma una magistratura più debole.
Analizziamo il punto focale: la separazione delle carriere. Si insiste sul fatto che pubblico ministero e giudice debbano essere due figure distinte, appartenenti a carriere diverse. Formalmente, lo sono già. Ma la narrazione politica vuole dipingere il PM come un "quasi-giudice" che influenza il vero giudice, in una sorta di "familiarità" che inquinerebbe il processo. È una tesi debole.
La verità è che separare le carriere in modo netto, magari creando due diversi Consigli Superiori (uno per i giudici, uno per i PM), rischia di produrre un effetto devastante. Il pubblico ministero, slegato dalla cultura giurisdizionale comune e dalla garanzia di indipendenza che (pur con tutte le sue storture) il CSM unico rappresenta, rischierebbe di diventare qualcosa di molto diverso: un super-avvocato dell'accusa, potenzialmente più sensibile alle direttive del potere esecutivo.
È questo che vogliamo? Un'accusa che risponde, anche indirettamente, alla politica? La storia del nostro Paese, da Tangentopoli in poi, dovrebbe insegnarci che l'indipendenza del PM — che in Italia, ricordiamolo, ha l'obbligo costituzionale dell'azione penale — è il primo argine contro la corruzione e l'abuso di potere.
La critica si estende inevitabilmente alla riforma del CSM. Si parla di sorteggio per combattere il "correntismo", ma il sorteggio (o "sorteggio temperato") è solo un altro modo per evitare il problema reale: la politicizzazione della magistratura associata. L'attuale crisi del CSM non si risolve con l'alea della sorte; si risolve con una riforma seria dei criteri elettorali e, soprattutto, restituendo centralità alla professionalità e al merito, non all'appartenenza.
Il sospetto, forte e sgradevole, è che questa intera impalcatura non serva a dare risposte ai cittadini che aspettano una sentenza da dieci anni. Serve a mandare un messaggio a quella parte della magistratura considerata "ostile" dalla politica. È una riforma punitiva, che confonde l'efficienza con il controllo.
Invece di separare le carriere, separiamo le ossessioni della politica dai bisogni reali del Paese. Vogliamo processi più rapidi? Assumiamo cancellieri, investiamo in infrastrutture, semplifichiamo le procedure. Volere un PM "separato" suona, oggi più che mai, come il desiderio di un PM "addomesticato". E una giustizia addomesticata non è più giustizia: è solo l'anticamera dell'arbitrio. (Stefano Donno)
La mia ultima storia per te di Sofia Assante (Mondadori)
Libro vincitore del Premio Viareggio Opera Prima 2025
Al suo esordio, Sofia Assante mette a punto una voce narrante ironica e irresistibilmente romantica, che omaggia esplicitamente alcuni grandi narratori americani, da Salinger a Fitzgerald a Dylan, ed è capace di far sorridere e al tempo stesso commuovere. E racconta una storia piena di segreti e sorprese narrative, attraversata da una domanda che tutti ci siamo fatti almeno una volta nella vita: possiamo davvero dire di conoscere le persone che abbiamo accanto?
«Quante cose ci sono dentro questo bel romanzo d'esordio: l'amicizia assoluta e lo spleen dell'adolescenza ma anche i misteri e le colpe di ogni famiglia e di ogni amore.» - Daria Bignardi
«Un libro denso, profondo, commovente, ironico. Sofia Assante è puro talento.» - Antonio Manzini
mercoledì 29 ottobre 2025
Meloni-Orbán: l'amicizia di comodo e il "Patto del Diavolo" che logora l'Europa - ecco cosa ne penso
C'è un gioco delle parti che va in scena a Bruxelles e nelle capitali europee, e i due protagonisti più discussi sono, ancora una volta, Giorgia Meloni e Viktor Orbán. L'articolo de Linkiesta analizza gli "obiettivi" e la natura di questa "amicizia", ma la verità, spogliata dai convenevoli diplomatici, è molto più cruda: quella tra la Premier italiana e il leader ungherese non è un'alleanza strategica, è un baratto tattico. Un patto di convenienza che serve a entrambi, ma che rischia di costare caro all'Italia e all'Unione.
Da un lato, abbiamo un Viktor Orbán sempre più isolato. Con il Gruppo di Visegrád spaccato dalla sua posizione ambigua (per usare un eufemismo) sull'Ucraina e la sua deriva illiberale che lo ha reso un paria nel Partito Popolare Europeo, Orbán ha un disperato bisogno di legittimazione. Ha bisogno di un "cavallo di Troia" in una capitale che conta.
Giorgia Meloni è quel cavallo. Anzi, è la sua porta d'accesso al tavolo dei Grandi.
Dall'altro lato, abbiamo una Giorgia Meloni che gioca la partita più difficile: quella del "doppio forno". A Washington e a Bruxelles, veste i panni della leader atlantista, pragmatica, affidabile; la "nuova Merkel" per alcuni, la garante dello status quo mediterraneo per altri. A Roma, e soprattutto al suo elettorato di destra, deve però dimostrare di non essersi "venduta" all'establishment.
Ecco che Orbán diventa funzionale. L'amico Viktor serve a Meloni per blindare il gruppo dei Conservatori e Riformisti (ECR) al Parlamento Europeo, mantenendo una massa critica sovranista che le dia potere negoziale. È il suo asset per tenere sotto scacco i Popolari, per ricordare a Ursula von der Leyen che l'alternativa di destra esiste ed è compatta.
Ma a che prezzo?
Qui sta il punto critico, l'ipocrisia di fondo che Linkiesta giustamente sottintende. Non si può essere contemporaneamente il partner più affidabile di Joe Biden e il migliore amico dell'unico leader UE che flirta apertamente con Vladimir Putin e Xi Jinping. Non si può presiedere il G7 parlando di difesa della democrazia liberale e, il giorno dopo, difendere (o tacere) sulle strette alla stampa, alla magistratura e ai diritti LGBTQ+ che avvengono a Budapest.
L'analisi degli "obiettivi" è impietosa. L'obiettivo di Orbán è chiaro: smantellare l'UE dall'interno, trasformandola in un bancomat senza vincoli sui valori. L'obiettivo di Meloni è più complesso: cambiarla, ma restando al comando.
Il problema è che questo abbraccio tattico sta diventando tossico. Ogni volta che Meloni legittima Orbán, delegittima sé stessa sulla scena internazionale. Ogni volta che l'ungherese usa il veto sull'Ucraina, l'ombra di quell'"amicizia" si allunga sul governo italiano.
Meloni crede di usare Orbán per costruire la sua egemonia conservatrice. È un calcolo pericoloso. La storia recente insegna che i "cavalli di Troia" hanno la pessima abitudine di non obbedire al cavaliere una volta dentro le mura. L'amicizia, in politica, è la maschera dell'interesse. E in questo caso, gli interessi divergono su tutto ciò che conta: NATO, Russia, stato di diritto.
La Premier italiana sta giocando con il fuoco. Pensa di poter "normalizzare" l'illiberale di Budapest, ma il rischio concreto è che sia Orbán a "orbanizzare" il dibattito della destra europea, trascinando anche l'Italia in una zona grigia dove i confini tra alleati e avversari diventano pericolosamente sfumati. (Stefano Donno)
L'ultimo segreto di Via Volpi di Paola Minussi (BERTONI)
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