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lunedì 30 novembre 2020

L’intelligenza artificiale conversazionale salverà il pensiero

Le informazioni e i dati in circolo sono in continua crescita. Se spesso ci è capitato di dire “non sento, c’è troppo rumore!”, sempre di più, oggi, ci capita di pensare “non capisco, ci sono troppe informazioni!”. Non importa che queste informazioni provengano da altre voci, notifiche push, sovrapposizioni di messaggi: tutto quello che non è il segnale che ci interessa, ci infastidisce. Ormai non si può più trascurare quello che viene definito “signal to noise ratio”, ovvero il rapporto tra segnale e rumore. Ma cos’è il segnale? Cos’è il rumore? E come può l’intelligenza artificiale aiutarci a non venire sommersi di informazioni?

 

Too much signal

 

La società IDC (International Data Corporation) ha rilevato che nel 2018 c’erano 33 Zettabyte di dati in tutto il mondo (dove uno Zettabyte corrisponde a un miliardo di Terabyte), ma prevede che entro il 2025 si arriverà ai 175 Zettabyte. Non è tutto, l’IDC dice anche che le persone mediamente passeranno dalle 601 interazioni giornaliere con i propri device a 4.800 nel 2025.

 

Anche se è difficile dare un senso a questi numeri, è chiaro che fanno impressione. E infatti sono un problema, teorizzato già dallo psicologo David Lewis nel 1996, chiamato information fatigue syndrome: troppi dati affaticano le nostre capacità analitiche e quando esse sono ridotte anche la nostra capacità di capire cosa è necessario e cosa non lo è viene alterata. Il pensiero è infatti un processo di esclusione, e a più informazioni corrispondono meno capacità analitiche. Meno capacità analitiche abbiamo, meno capacità di scelta possediamo. E a meno capacità di scelta corrispondono più informazioni in entrata. Un cane che si morde la coda.

 

Questo processo, ripetuto, porta infatti all’information overload che non è nient’altro che l’incapacità cognitiva di restare al passo con tutte le informazioni che si hanno a disposizione. Sentiamo la pressione di rimanere sempre aggiornati e sempre sul pezzo, ma ciò è impossibile perché le informazioni sono troppe. Professionalmente dobbiamo essere in linea con gli ultimi sviluppi, personalmente sentiamo di non poter perdere nemmeno un aggiornamento. Viviamo in un perenne stato di FOMO: fear of missing out.

 

Esistono però due tipi di information overload, e uno dei due è molto più insidioso. C’è un overload condizionale – che sorge quando dobbiamo trovare una risposta “giusta” in un oceano di informazioni, non tutte rilevanti: ma a gestire questo siamo diventati bravi grazie ai filtri tecnologici come i motori di ricerca. C’è poi quello ambientale, ed è questo il vero problema, che si crea quando siamo circondati da quantità di informazioni tutte rilevanti: le abbiamo scelte, sono cose che ci piacciono, ma sono talmente tante che facciamo fatica a elaborarle tutte. Continuiamo a cliccare link, continuiamo a scrollare, a ricaricare pagine, ad aprire nuove tab nei browser, ad aggiungere ai preferiti, ad aggiungere alla lista di cose da leggere o guardare dopo, a controllare le email e le raccomandazioni di Netflix o di Amazon.  Migliorando le tecnologie di ricerca, migliorando i filtri tecnologici, risolviamo il primo overload, quello condizionale causato dal troppo rumore, ma stiamo allo stesso tempo peggiorando il secondo, aumentando il flusso di informazioni rilevanti: come si diceva all’inizio, creiamo troppo segnale.

 

I filtri fanno quello per cui li abbiamo costruiti: trovare l’informazione più rilevante e proporcela. Ma è impossibile pensare di risolvere il problema dell’overload di informazioni semplicemente migliorando la tecnologia che lo ha creato. Abbiamo bisogno di un cambio di prospettiva.

 

La sfida dell’intelligenza artificiale    

 

Se il ritmo con il quale assumiamo le informazioni ha un forte impatto sulle nostre vite, tornando a un ritmo di vita più calmo, potremmo tornare a essere persone più analitiche e creative, sarebbe più facile concentrarsi, risolvere i problemi e forse persino diventare persone migliori. Uscire da queste dinamiche da soli però è difficile.

 

Nel frattempo, ci stiamo affacciando su una rivoluzione tecnologica che potrebbe cambiare le regole del gioco nella battaglia tra segnale e rumore. L’intelligenza artificiale ha tutte le caratteristiche per diventare il più potente filtro tecnologico mai inventato prima e inondare le nostre vite di segnale e di informazioni rilevanti. Già oggi qualsiasi sistema di raccomandazione esistente sfrutta l’AI: da Spotify a Netflix, tutti stanno facendo a gara per diventare i nostri migliori amici, conoscere i nostri gusti meglio di chiunque altro, ma l’intelligenza artificiale può spingersi anche molto oltre, creando filtri tecnologici che non solo conoscono i nostri gusti, ma che sono in grado di creare dal nulla contenuti unici per quel momento e quella persona. Immaginate una pubblicità che è stata creata al momento, pensata apposta per i voi e per i vostri gusti, che probabilmente sarete le uniche persone nella storia a vedere. L’AI può farlo, basti pensare al fenomeno dei deep-fake per capire le potenzialità che questa tecnologia ha nel creare contenuti e media. Quindi, prima di arrivare al momento in cui qualsiasi cosa sia segnale, dobbiamo trovare il modo di sfruttare la potenza dell’intelligenza artificiale per prediligere calma, qualità e benessere.

 

Il cambiamento dovrebbe arrivare direttamente dalle persone che concepiscono gli strumenti e le tecnologie che usiamo ogni giorno. Noi del mestiere dobbiamo iniziare a sentire il carico della responsabilità di quello che creiamo, per cercare di costruire strumenti che aiutino le persone a non entrare nel loop della information fatigue syndrome. Noi che in Indigo.ai ci occupiamo di queste tematiche per lavoro, ci siamo chiesti: “Cosa possiamo fare? Se migliorare i filtri peggiora le cose, come ci dobbiamo comportare? Come ci ribelliamo?

 

La soluzione è costruire tecnologie che ci permettano di rimanere in contatto con la nostra natura. Dobbiamo scegliere di rallentare in una società che non fa altro che accelerare e per farlo possiamo prendere spunto da soluzioni inventate migliaia di anni fa, come il linguaggio e la conversazione, che garantiscono il tempo necessario per elaborare le informazioni e aggiungono pause tra un’informazione e l’altra. Esiste già oggi un tipo di tecnologia basata sulla conversazione: si chiama “intelligenza artificiale conversazionale” e può essere la base di un nuovo modo, più sano, di approcciarci alle informazioni. Se fino ad ora abbiamo cercato di ridurre il rumore nei nostri tool e nelle nostre tecnologie, oggi dobbiamo iniziare a capovolgere il paradigma riducendo anche il segnale, e la conversational AI può aiutarci.          

     

Una domanda però sorge spontanea: ma perché proprio la conversazione? Vediamolo di seguito.

 

Cinque modi in cui l’AI conversazionale ci può aiutare a ridurre il segnale    

 

  1. Lentezza. Il linguaggio è semplicemente più lento delle altre tecnologie  che abbiamo a nostra disposizione. Una ricerca uscita da poco su Science dice che le nostre conversazioni viaggiano a una velocità di 39 bit al secondo, a prescindere dalla lingua. Quasi come se la natura e l’evoluzione abbiano fissato un limite universale di velocità per lo scambio di informazioni.    
  2. Gradualità. Le conversazioni si costruiscono gradualmente. Una persona – e allo stesso modo un’AI basata sulla conversazione – non ci inonda di informazioni appena inizia a parlare (tranne in alcuni sfortunati casi!). Le conversazioni procedono lentamente, iniziano meno dense di informazioni e poi arrivano a mano a mano al nocciolo.
  3. Sincronia. La conversazione è un tipo di comunicazione sincrona, ovvero ci permette di affrontare gli argomenti in sessioni singole (una conversazione per ogni argomento), mentre con quella asincrona, che è il paradigma di oggi, accumuliamo enormi quantità di informazioni a cui rispondere.
  4. Pazienza. Le conversazioni ci danno l’opportunità di avere dei tempi di attesa. Le attese oggi sono diventate quasi un sacrilegio: le aziende hanno paura di far aspettare i propri utenti. Ma la dialettica conversazionale ci invita a elaborare le informazioni che stiamo assorbendo, ci dà il tempo per pensare e respirare.
  5. Sperimentazione. La conversazione è una “tecnologia” molto antica. Abbiamo iniziato a sperimentare il linguaggio circa 200mila anni fa, ci siamo abituati con il tempo, ne abbiamo lunga esperienza. Questo influenza il modo in cui pensiamo e vediamo il mondo: il nostro modo di pensare è costruito sul linguaggio.

 

Una tecnologia basata sulla conversazione è, insomma, una tecnologia a misura d’uomo e che rispetta i tempi e i processi del modo di pensare umano. Una tecnologia che previene l’overload di informazioni perché è adatta a noi e non richiede che noi ci adattiamo a lei. 

 

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