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domenica 26 ottobre 2025

L'agenda di famiglia e la "Rivoluzione" sulla Giustizia: Marina Berlusconi e l'ombra lunga di Arcore - ecco cosa ne penso

 Che la separazione delle carriere fosse il cuore pulsante della riforma della giustizia voluta da questo governo, era noto. Che fosse un vecchio pallino del centrodestra, altrettanto. Ma la recente "discesa in campo" di Marina Berlusconi, che dalle colonne del Fatto Quotidiano e altre testate plaude all'intervento definendolo "una rivoluzione", opera uno svelamento politico cruciale. Sgombra il campo da ogni tecnicismo e riporta la battaglia esattamente dove era nata: nello scontro trentennale tra un'idea di potere e l'autonomia della magistratura.

Quando la presidente di Fininvest e Mondadori parla di giustizia, non parla mai da semplice cittadina. Parla da erede, non solo economica ma politica, di una visione del mondo e dello Stato che ha nel presunto "strapotere" delle procure il suo nemico giurato. Sentirla parlare, come riportano le cronache, delle "due facce" della giustizia e della "drammatica esperienza subita dal padre", non è un'analisi. È una rivendicazione.

Non si tratta, e non si è mai trattato, di migliorare l'efficienza del sistema o di aderire a un modello astrattamente più liberale. Si tratta di saldare un conto.

La "rivoluzione", termine che la stessa Berlusconi usa con enfasi, suona sinistra alle orecchie di chi, come l'Associazione Nazionale Magistrati o l'assemblea internazionale dei giudici citata dal Fatto, vede in questa riforma non una garanzia in più per i cittadini, ma un passo decisivo verso l'assoggettamento del pubblico ministero al potere esecutivo.

Mentre l'ANM bolla le critiche di Marina Berlusconi come il solito tentativo di delegittimazione, parlando di "errori fisiologici" del sistema, e mentre un magistrato del calibro di Nicola Gratteri avverte che l'obiettivo è "trasformare i pm in burocrati" per "impaurirli", la figlia del fondatore di Forza Italia offre la vera chiave di lettura. La riforma non è tecnica; è filosofica. Anzi, è dinastica.

È la prosecuzione, con mezzi oggi governativi, di una guerra iniziata a metà degli anni '90. La separazione delle carriere, nella narrazione berlusconiana, non serve a rendere il giudice più "terzo". Serve a indebolire l'accusatore. Serve a spezzare quel legame di "cultura della giurisdizione" che, pur con tutti i suoi difetti, ha garantito finora che il pm non fosse un semplice "avvocato dell'accusa" alle dipendenze della politica, ma un magistrato custode della legalità.

L'intervento a gamba tesa della presidente Mondadori, in un momento così delicato del dibattito parlamentare, non è un endorsement: è un avviso. È il sigillo di famiglia su una legge che non promette una giustizia migliore, ma una giustizia più debole. Una "rivoluzione", appunto, che mira a rovesciare non gli errori del sistema, ma uno dei pilastri fondamentali dell'equilibrio democratico. (Stefano Donno)

 

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