Nel teatro della geopolitica globale, c'è una differenza sostanziale tra la tensione, che è strategica, e l'isteria, che è sintomo di debolezza. A giudicare dalle ultime notizie che rimbalzano tra Pechino e Tokyo, siamo pericolosamente scivolati nella seconda categoria.
Le "tensioni alle stelle", come riportato anche dal Corriere, non sono più solo il rito stanco di pattugliamenti navali attorno alle isole Senkaku (o Diaoyu, a seconda da quale lato della mappa si guarda). Ora siamo al livello degli "insulti" e delle "minacce" dirette. Questo non è solo un peggioramento delle relazioni; è una deliberata erosione dei canali diplomatici, sostituita da una retorica da cortile che serve solo a infiammare il pubblico nazionalista in patria.
Siamo onesti: né la Cina né il Giappone hanno alcun interesse reale a scatenare un conflitto armato. Il costo economico, politico e umano sarebbe catastrofico e annullerebbe decenni di progresso. Entrambe le nazioni sono legate da un'interdipendenza economica così profonda che un vero disaccoppiamento è, al momento, pura fantasia.
E allora, perché questa escalation verbale?
La risposta, cinica ma accurata, è la politica interna.
Da un lato, abbiamo la Cina di Xi Jinping, che deve costantemente nutrire la sua narrazione di un "ringiovanimento nazionale" e di una supremazia regionale indiscutibile. Il Giappone, alleato chiave degli Stati Uniti e potenza economica storica, è l'ostacolo perfetto, il "nemico" ideale su cui proiettare forza, deviando l'attenzione da un'economia che scricchiola e da un controllo sociale sempre più soffocante.
Dall'altro lato, un Giappone che, sotto la spinta di queste minacce, ha completato la sua più significativa trasformazione dalla Seconda Guerra Mondiale: il riarmo. L'abbandono della costituzione pacifista non è più un tabù, ma una necessità strategica. Per l'attuale amministrazione giapponese, agitare lo spauracchio di Pechino è fondamentale per giustificare davanti alla propria opinione pubblica (storicamente pacifista) un aumento senza precedenti delle spese militari e un legame ancora più stretto con Washington.
Il problema è che questo "gioco" è incredibilmente pericoloso. La diplomazia degli insulti, l'uso della minaccia come strumento di negoziazione, crea un ambiente in cui l'errore di calcolo non è solo possibile, ma probabile. Cosa succederà quando un capitano di cacciatorpediniere, esaltato dalla retorica del suo governo, deciderà di rispondere a una "provocazione" un secondo troppo presto?
Stiamo assistendo a una sclerosi della diplomazia. Le accuse e le minacce non sono segnali di forza, ma l'ammissione di un fallimento: il fallimento di due potenze globali incapaci di gestire la loro rivalità in modo maturo. L'Occidente, e in particolare l'Europa, osserva questo spettacolo con colpevole distrazione, dimenticando che una crisi nell'Indo-Pacifico farebbe impallidire le conseguenze economiche di qualunque altro conflitto recente.
Quando la retorica supera la strategia, il rischio è che le parole diventino profezie che si auto-avverano. E nel Pacifico, nessuno può permettersi il lusso di dire: "non avevo capito". (Stefano Donno)

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