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domenica 30 marzo 2025

Ezechiele Leandro e la bellezza nella mostruosità

Pensate ad un angolo di Puglia, lontano dai riflettori delle spiagge affollate e dai vicoli bianchi di Ostuni, dove il tempo sembra essersi fermato e un uomo, con le sue mani ruvide e un’immaginazione senza confini, ha dato vita a un mondo unico. Sto parlando di San Cesario di Lecce, un piccolo comune a pochi passi dal capoluogo salentino, e di Ezechiele Leandro, un artista che definire "straordinario" è quasi riduttivo. La sua storia e il suo capolavoro, il Santuario della Pazienza, sono stati un viaggio nell’arte contemporanea pugliese che merita di essere raccontato, con entusiasmo e un pizzico di stupore.
Leandro nasce a Lequile nel 1905, in un contesto umile e travagliato: orfano, autodidatta, un uomo che si forma tra i pascoli, i cantieri e le miniere d’Africa e Germania, prima di stabilirsi a San Cesario. Qui, in via Cerundolo, costruisce non solo una casa, ma un universo artistico che sfugge a ogni catalogazione. Pittura, disegno, scultura, collage, assemblaggi, installazioni: il suo linguaggio è un’esplosione eclettica, un caos organizzato che lui stesso definiva "primitivo". E aveva ragione. C’è qualcosa di ancestrale nelle sue opere, un ritorno alle origini dell’espressione umana che però dialoga, quasi inconsapevolmente, con le avanguardie del Novecento.
Pensate a Duchamp e ai suoi ready-made: Leandro, con la stessa audacia, raccoglie materiali di scarto – cocci, ferro, copertoni, piastrelle – e li trasforma in arte, dando nuova vita a ciò che la società ha dimenticato. Oppure a Picasso, con quel suo primitivismo cubista che scompone e ricompone la realtà: anche Leandro guarda al mondo con occhi che vedono oltre, frammentando e ricostruendo l’esistenza in simboli e allegorie. Ma non si ferma qui. La sua arte è mutante, sfuggente, un mix di sacro e profano, di visioni apocalittiche e riflessioni sull’uomo, che lo rende un outsider autentico, lontano dalle mode e dalle correnti ufficiali.
Il Santuario della Pazienza, inaugurato nel 1975 dopo anni di lavoro solitario, è stato il cuore pulsante di questa ricerca. Situato nel giardino della sua casa-museo, era a tutti gli effetti un’opera ambientale di oltre 700 metri quadrati, un labirinto di oltre 200 sculture in cemento e materiali riciclati che rappresentano scene bibliche – l’Apocalisse, la Passione di Cristo, il Giudizio Universale – ma anche figure fantastiche nate dalla sua immaginazione. Entrarci era come immergersi in un sogno febbrile: statue antropomorfe, mosaici irregolari, grovigli di forme che sembrano pulsare di vita. Un luogo che ha richiesto pazienza, sì, per essere compreso, ma che ha ripagato con un’esperienza sensoriale e spirituale unica.
Come appassionato di storia dell’arte contemporanea pugliese, non posso non emozionarmi davanti a un artista così libero. Leandro non aveva studiato nelle accademie, non frequentava gallerie alla moda, eppure il suo talento ha attraversato i confini, arrivando a esposizioni internazionali negli anni ’70. Tuttavia, a San Cesario, la sua comunità lo guardava con sospetto, lo considerava un eccentrico, quasi un folle. Le sue sculture, definite “mostri” da alcuni, sono state persino oggetto di vandalismi, tanto da spingerlo a erigere un muro di cinta per proteggerle. Oggi, quel muro può essere inglobato in un immaginario collettivo tanto da farne un simbolo di resistenza,
Cosa rende Leandro così speciale per la Puglia e per l’arte contemporanea? La sua capacità di trasformare il margine in centro, il rifiuto in bellezza, il silenzio in un grido universale. In un’epoca in cui l’arte spesso si piega al mercato, lui ci ricorda che creare è un atto di necessità, non di convenienza.

sabato 29 marzo 2025

Elodie - Bagno a mezzanotte

SALVATORE TOMA, POETA MALEDETTO?

Create e trattenete nella mente l'immagine di un poeta che sfreccia su un motorino scassato per le stradine polverose di Maglie, nel cuore del Salento, con una penna in mano e un ghigno beffardo sul viso. Immaginate un uomo che scrive cartoline al vetriolo ai potenti dell’editoria milanese e che, tra un sogno annotato al risveglio e un bicchiere di vino, si ritira in un bosco di querce a contemplare la vita, la morte e tutto ciò che sta nel mezzo. Questo era Salvatore Toma, un poeta che non si può incasellare, un “maledetto” per vocazione e un visionario per natura, scomparso troppo presto nel 1987, a soli 35 anni, ma ancora vivo nelle sue parole feroci, leggere e surreali.
Nato nel 1951, Toma è stato un ribelle gentile, un anarchico della parola che ha fatto della sua breve esistenza un manifesto di libertà. La recente pubblicazione di Poesie (1970-1983), curata da Luciano Pagano per Musicaos Editore, ci restituisce l’intera parabola creativa di un autore che la Puglia può annoverare tra i suoi giganti del Novecento. Non è solo il poeta della morte – anche se il tema lo attraversa come un filo rosso, potente e ineludibile – ma un cantore dell’amore, della natura, del sogno e dell’ironia. Leggerlo oggi significa scoprire un uomo che, con un linguaggio diretto e cangiante, sapeva passare dal sarcasmo alla tenerezza, dalla rabbia alla visione onirica, senza mai perdere il contatto con la terra che lo ha generato.
Pensate alla sua Ultima lettera di un suicida modello, scritta nel 1979: “Farsi fuori è un modo di vivere / finalmente a modo proprio / a modo vero”. È un pugno nello stomaco, un grido che sfida le convenzioni e rivendica il coraggio di scegliere, anche nella fine. Eppure, non fermatevi qui. Toma è anche il poeta che si prende gioco del mondo, che immagina di passare col rosso per attirare l’attenzione di Maria Corti – la studiosa che lo scoprì e lo pubblicò su Alfabeta – o che si perde nei suoi sogni, da cui nascevano versi caravaggeschi, pieni di luce e ombra. Come disse Antonio Verri, suo amico e ammiratore, “Toma è un colossale bagno di trovate”, un autore che vola sopra le meschinità del quotidiano e colpisce con la sua verità.
E poi c’è la natura, il suo grande amore. In un’epoca in cui il mondo già scivolava verso il disastro ecologico, Toma sognava di diventare “albero e radice”, “terra contesa”, “fiore o montagna”. La sua visione panteistica, quasi profetica, ci parla oggi più che mai: un invito a guardare oltre l’umano, a ritrovare un legame profondo con ciò che ci circonda. Non è morto, come scrisse Antonio Errico sul Quotidiano di Lecce nel 1987: “Pensate solo che non è più su questa terra. Perché così lui vuole che si pensi”. E come dargli torto?
La leggenda di Toma – alimentata dalla sua vita isolata, dalle sue stravaganze, dal suo rifiuto di piegarsi al potere – non deve però oscurare la sua poesia. Poesie (1970-1983) ci offre un ritratto più completo rispetto al pur prezioso Canzoniere della morte curato da Maria Corti nel 1999. Qui troviamo un Toma giocoso, vitale, sarcastico, capace di mescolare registri e di sorprendere a ogni verso. È un poeta che merita di essere letto non solo come mito, ma come voce autentica, capace di parlare al nostro tempo con una forza che non si spegne.
Se vi capita tra le mani questo libro, lasciatevi trasportare. Non è solo un viaggio nella mente di un “Rimbaud del Sud”, ma un’esperienza che vi farà ridere, riflettere e, forse, guardare il mondo con occhi diversi. Perché Salvatore Toma, in fondo, non è mai stato solamente ed esclusivamente un poeta: è stato un modo di esserci, un respiro selvaggio che ancora ci chiama.