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mercoledì 29 ottobre 2025
martedì 28 ottobre 2025
Meloni, Orbán e l'illusione della "normalizzazione". A Palazzo Chigi va in scena il vertice dell'equilibrismo? - ecco cosa ne penso
La stretta di mano a Palazzo Chigi c'è stata. E, come da copione, le foto ufficiali mostreranno due leader alleati, sorridenti, membri della stessa famiglia (o quasi) conservatrice europea. Ma l'incontro tra Giorgia Meloni e Viktor Orbán è tutto tranne che un vertice di routine. È il più plastico esempio della "doppia anima" della Premier italiana: atlantista di ferro a Washington e Bruxelles, ma costretta a gestire l'alleato più "scomodo" d'Europa, proprio mentre quest'ultimo si prepara a prendere il timone della Presidenza di turno del Consiglio UE.
Chiamatelo realismo, chiamatelo equilibrismo. A me pare, soprattutto, un esercizio di contenimento del danno.
Analizziamo il "menù" ufficiale, come riportato dalle cronache: competitività e difesa. Nomi altisonanti che nascondono voragini.
Sulla competitività, si parla di "dottrina Draghi", di come rendere l'UE più forte di fronte alla concorrenza cinese e americana. Un'ottima intenzione. Peccato che il modello economico di Orbán sia l'esatto opposto: un sistema illiberale, ultra-sovranista, drogato di fondi UE (quando non bloccati) e fondato sul cherry-picking delle regole del mercato unico. Chiedere a Orbán di guidare una riforma della competitività europea è come chiedere a una volpe di progettare un pollaio più sicuro.
Poi, la difesa comune. Qui l'ipocrisia raggiunge vette quasi artistiche. Meloni è, giustamente, la portabandiera del sostegno incrollabile a Kyiv. Orbán è, palesemente, il Cavallo di Troia di Vladimir Putin in Europa. Per mesi ha posto veti, rallentato sanzioni, bloccato aiuti militari, giocando sulla stanchezza dell'Occidente.
Come può Meloni "sondare le mosse" del leader ungherese su un piano di difesa comune, quando Orbán rema attivamente contro la strategia di difesa basilare dell'Unione, che oggi si chiama Ucraina?
Il punto non è cosa c'era sul tavolo, ma cosa c'era sotto il tavolo.
La vera partita non è la competitività, ma il potere. Orbán sta per diventare Presidente di turno del Consiglio UE. È un ruolo che, sebbene formale, offre un pulpito e un'agenda. Può rallentare, inquinare, deviare il dibattito. Meloni, da leader dell'ECR (Conservatori e Riformisti Europei), sa di aver bisogno dei voti di Fidesz (il partito di Orbán) per costruire la sua agognata maggioranza di destra a Strasburgo, magari tentando la storica ricucitura con il PPE.
Il vertice di Chigi non è servito a "smarcare Orbán dall'abbraccio di Putin", come qualche ingenuo stratega forse spera. Quell'abbraccio non è tattico, è strategico; per Orbán è sopravvivenza politica ed energetica.
No, questo incontro è servito a Meloni per tastare il polso all'incendiario prima di consegnargli i fiammiferi della Presidenza UE. È il tentativo disperato di ottenere rassicurazioni minime, di tracciare qualche linea rossa, sapendo già che Orbán le ignorerà alla prima occasione utile.
L'illusione della "normalizzazione" di Orbán è un gioco pericoloso che l'Europa ha già giocato e perso. L'ospite "scomodo" non è venuto a Roma per convertirsi sulla via dell'atlantismo. È venuto a farsi legittimare dalla leader italiana più forte del momento, per poi tornare a Budapest e continuare il suo metodico sabotaggio dall'interno.
Quella di Giorgia Meloni non è diplomazia. È gestione del rischio. Ma il rischio, con Orbán, non si gestisce: si subisce (Stefano Donno)
AMERICA LATINA: in libreria il saggio sulle visioni contemporanee di architettura sostenibile (Gangemi Editore)
Esce in libreria AMERICA LATINA. Vivere nella contemporaneità. Visioni di architettura sostenibile, un imponente progetto editoriale senza precedenti, promosso dall’IILA – Organizzazione Internazionale Italo-Latino Americana, curato da Paola Pisanelli Nero, pubblicato da Gangemi Editore e realizzato con il contributo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale italiano (DGCS/MAECI), e il sostegno di CAF - Banco de desarrollo de América Latina y el Caribe.
Il volume si aggiunge alla mostra realizzata nel 2024 presso la Galleria Candido Portinari dell’Ambasciata del Brasile a Roma e raccoglie 49 progetti rappresentativi delle più significative esperienze di architettura sostenibile contemporanea nei venti paesi membri dell’IILA, restituendo un’immagine concreta e articolata della cultura che si esprime oggi nella progettazione architettonica e negli spazi costruiti in America Latina.
Non si tratta di un semplice catalogo, ma di un’opera autonoma, trilingue (italiano, spagnolo e inglese), che si presenta come uno studio ragionato di casi studio declinati per assi tematici ed analizzati nel loro sviluppo progettuale, dal concept alla realizzazione, attraverso testi, immagini e disegni. I progetti, selezionati in anni di ricerca dall’autrice, che collabora con IILA dal 2003, si estendono dal paesaggio andino alle foreste tropicali, dalle metropoli alle aree rurali, e sono accomunati da una visione profonda e differenziata della sostenibilità, intesa non solo come attenzione all’intorno naturale per preservare gli ecosistemi, ma anche come rispetto per la cultura locale, uso responsabile dei materiali, partecipazione delle comunità e rilettura delle tecniche e delle tradizioni costruttive da mantenere, aggiornare e tramandare
L’approccio curatoriale rifugge ogni stereotipo: il libro non privilegia i paesi più esposti mediaticamente, ma dà spazio a una molteplicità di voci, studi, territori. Come sottolinea Paola Pisanelli Nero, «nel corso del tempo mi sono resa conto che opere e progetti dell’architettura latinoamericana più diffusa erano soprattutto quelli risultati dall’esportazione di modelli europei contaminati con i materiali dell’America latina. La narrazione architettonica era assente in molti contesti internazionali, né venivano esportati i progetti. Ho pensato così di voler dare voce e spazio anche ai contesti più decentrati, dimostrando che l’innovazione, quando è radicata nel territorio, può superare ogni moda e ogni geografia. Un esempio su tutti è il peruviano Luis Longhi, che ha costruito su una collina a pochi chilometri da Lima, vicino a resti pre-inca, una casa ipogea, realizzata in pietra con tecniche artigianali e maestranze locali, lasciando al paesaggio il compito di suggerire la destinazione d’uso dello spazio. Essendo l’architettura l’espressione di un popolo, ogni progetto diventa qui una chiave per leggerne le radici e la prospettiva in cui è nato, e al contempo ogni architetto un interprete della propria cultura materiale.»
Tra i progetti illustrati troviamo la “Casa Parásito” a Quito, un prototipo urbano di micro-abitazione o tiny house, che posta sulla copertura di fabbricati, rappresenta la risposta sostenibile ed inclusiva per risolvere le esigenze abitative delle giovani generazioni in coppia o single, la “Casa Fortunata” costruita attorno a un albero millenario e monumentale nel sud del Brasile, la “Vivienda Ara Pytu” in Paraguay, che si integra nel bosco secondo la visione cosmologica guaraní e che impiega il tetto- giardino per ridurre la temperatura interna e migliorare l'efficienza energetica, e la “Casa de la lluvia (de ideas)” a Bogotá, uno spazio sociale autogestito realizzato con tecniche di autocostruzione e materiali locali. E, ancora, il “Jardín Hospedero y Nectarífero” a Cali, il “CIVAC Parque Lineal” in Messico, il recupero di un vecchio caseggiato “Conventillo de La Boca” a Buenos Aires o la “Casa Pachacamac” scavata nella roccia vicino Lima, che disegnano una geografia architettonica che si nutre della diversità e della memoria dei luoghi. La “Iglesia sin religión” dell’architetto colombiano Simón Vélez, costruita in bambù guadua, rappresenta poi uno degli esempi più emblematici di questa visione organica e comunitaria dell’architettura.
Il libro è introdotto da un testo di Antonella Cavallari, Segretario Generale dell’IILA, che evidenzia l’importanza della cultura come leva per la trasformazione sostenibile: «Dobbiamo adeguare i nostri modelli per renderli compatibili con il rispetto del Pianeta Terra, e quale miglior mezzo per produrre tale cambio se non la cultura?». E della cultura è parte integrante l’architettura, che offre un contributo fondamentale: tutti noi abitiamo spazi pubblici e privati e questi spazi sono la prima dimostrazione della sostenibilità del nostro modello di vita». L’iniziativa editoriale si inserisce infatti in un più ampio impegno dell’IILA per promuovere la transizione verde attraverso progetti mirati e una narrazione condivisa.
Parallelamente alla pubblicazione, è stato sviluppato un sito web dedicato – www.americalatinarchitettura.
Il volume, distribuito da Messaggerie, è attualmente disponibile presso tutte le principali librerie e piattaforme digitali.
Paola Pisanelli Nero, architetto italo-panamense laureata in Architettura all’Università degli Studi di Roma La Sapienza, ha poi conseguito la laurea magistrale in Architettura presso la Facultad de Arquitectura de Panamá. Già “Cultore della Materia” in Tecnologia dell’Architettura presso la Facoltà
di Architettura della Sapienza di Roma, studia la tecnologia dei materiali da costruzione. Nel 2003 ha co-fondato “MATMAT Materia e Materiali”, associazione con la partecipazione di docenti universitari e industrie dei materiali per diffondere la cultura dei materiali da costruzione. Ha partecipato a convegni e corsi. Cura progetti ed esposizioni internazionali di arte e architettura con particolare attenzione all’America Latina. Dal 2003 è consulente dell’IILA.
lunedì 27 ottobre 2025
La Tregua dei Giganti: Perché l'Accordo USA-Cina è solo un Cerotto sulla Frattura Globale - ecco cosa ne penso
Mentre le agenzie battono la notizia e i mercati festeggiano la stretta di mano tra Washington e Pechino, è d'obbligo, per chi osserva la geopolitica senza lenti colorate di rosa, raffreddare gli entusiasmi. Non assistiamo alla fine della Seconda Guerra Fredda; assistiamo, nel migliore dei casi, a una sua sospensione tattica. Un armistizio dettato dalla necessità, non dalla volontà.
Sia chiaro: un dialogo tra le due superpotenze è preferibile a un'escalation incontrollata. Ma l'accordo raggiunto – che La Repubblica suggerisce sia stato analizzato criticamente da voci autorevoli come quella di Sergey Radchenko – non è una pace. È un cerotto.
È un cerotto applicato da due economie che, semplicemente, non potevano più sostenere il ritmo dello scontro frontale. Da un lato, un'America alle prese con un'inflazione che morde e la necessità di stabilizzare i fronti prima di un ciclo elettorale; dall'altro, una Cina che fa i conti con i fantasmi del proprio modello di sviluppo: una crisi immobiliare sistemica, un debito interno galoppante e una demografia che rema contro.
Hanno comprato tempo. Ma a quale prezzo e, soprattutto, lasciando cosa fuori dal tavolo?
Qui sta il punto dolente, l'inganno di questa pax temporanea. L'accordo, presumibilmente di natura commerciale o tariffaria, non tocca – perché non può toccare – il cuore della contesa: la supremazia tecnologica e militare.
Possiamo essere certi che l'intesa non risolva la "guerra dei chip", né fermi la corsa disperata all'Intelligenza Artificiale generativa e militare. Non definisce uno status quo accettabile su Taiwan, che resta la faglia tettonica più pericolosa del pianeta. Non smantella l'architettura delle alleanze contrapposte (AUKUS da un lato, l'asse con Mosca e Teheran dall'altro).
È un accordo che gestisce i sintomi, ignorando la malattia. La malattia è la competizione sistemica tra due modelli incompatibili, una contesa per definire le regole del XXI secolo.
E l'Europa? L'Europa, come al solito, è il grande assente.
Siamo i convitati di pietra a un banchetto a cui non siamo stati invitati. In questo G2 che gestisce il pianeta, l'Unione Europea rimane un ricco mercato da conquistare e un consumatore di sicurezza (americana), ma tragicamente privo di una volontà di potenza autonoma.
Mentre Washington e Pechino decidono quali tecnologie saranno permesse e quali bandite, quali rotte commerciali proteggere e quali strangolare, Bruxelles si divide su dettagli regolatori, incapace di esprimere una voce strategica unitaria.
Questo accordo, quindi, non è una buona notizia per l'Europa. È un campanello d'allarme assordante. Dimostra che i due giganti possono alzare o abbassare la tensione a loro piacimento, trattando il resto del mondo come scenario secondario. Se non ci svegliamo da questo sonno strategico, finiremo per essere il terreno di gioco della loro prossima crisi, o il prezzo da pagare nel loro prossimo accordo. (Stefano Donno)
La strega di Dan di J. Malina, Eva Simon (Tra le righe libri)
domenica 26 ottobre 2025
L'agenda di famiglia e la "Rivoluzione" sulla Giustizia: Marina Berlusconi e l'ombra lunga di Arcore - ecco cosa ne penso
Che la separazione delle carriere fosse il cuore pulsante della riforma della giustizia voluta da questo governo, era noto. Che fosse un vecchio pallino del centrodestra, altrettanto. Ma la recente "discesa in campo" di Marina Berlusconi, che dalle colonne del Fatto Quotidiano e altre testate plaude all'intervento definendolo "una rivoluzione", opera uno svelamento politico cruciale. Sgombra il campo da ogni tecnicismo e riporta la battaglia esattamente dove era nata: nello scontro trentennale tra un'idea di potere e l'autonomia della magistratura.
Quando la presidente di Fininvest e Mondadori parla di giustizia, non parla mai da semplice cittadina. Parla da erede, non solo economica ma politica, di una visione del mondo e dello Stato che ha nel presunto "strapotere" delle procure il suo nemico giurato. Sentirla parlare, come riportano le cronache, delle "due facce" della giustizia e della "drammatica esperienza subita dal padre", non è un'analisi. È una rivendicazione.
Non si tratta, e non si è mai trattato, di migliorare l'efficienza del sistema o di aderire a un modello astrattamente più liberale. Si tratta di saldare un conto.
La "rivoluzione", termine che la stessa Berlusconi usa con enfasi, suona sinistra alle orecchie di chi, come l'Associazione Nazionale Magistrati o l'assemblea internazionale dei giudici citata dal Fatto, vede in questa riforma non una garanzia in più per i cittadini, ma un passo decisivo verso l'assoggettamento del pubblico ministero al potere esecutivo.
Mentre l'ANM bolla le critiche di Marina Berlusconi come il solito tentativo di delegittimazione, parlando di "errori fisiologici" del sistema, e mentre un magistrato del calibro di Nicola Gratteri avverte che l'obiettivo è "trasformare i pm in burocrati" per "impaurirli", la figlia del fondatore di Forza Italia offre la vera chiave di lettura. La riforma non è tecnica; è filosofica. Anzi, è dinastica.
È la prosecuzione, con mezzi oggi governativi, di una guerra iniziata a metà degli anni '90. La separazione delle carriere, nella narrazione berlusconiana, non serve a rendere il giudice più "terzo". Serve a indebolire l'accusatore. Serve a spezzare quel legame di "cultura della giurisdizione" che, pur con tutti i suoi difetti, ha garantito finora che il pm non fosse un semplice "avvocato dell'accusa" alle dipendenze della politica, ma un magistrato custode della legalità.
L'intervento a gamba tesa della presidente Mondadori, in un momento così delicato del dibattito parlamentare, non è un endorsement: è un avviso. È il sigillo di famiglia su una legge che non promette una giustizia migliore, ma una giustizia più debole. Una "rivoluzione", appunto, che mira a rovesciare non gli errori del sistema, ma uno dei pilastri fondamentali dell'equilibrio democratico. (Stefano Donno)
A proposito di Casanova di Miklós Szentkuthy (Adelphi)
Miklós Szentkuthy, saggista, memorialista, romanziere – paragonato a Borges per l’erudizione e a Joyce (ne aveva tradotto l’ Ulisse ) per ...
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