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venerdì 31 ottobre 2025

Il Trionfo Silenzioso di Pechino: Perché la Cina non vuole la pace (né in Ucraina, né con gli USA) - ecco cosa ne penso

 Sgombriamo subito il campo da qualunque illusione diplomatica: l'analisi che emerge dalle colonne de Il Fatto Quotidiano non è solo una provocazione, è la fotografia spietata del nuovo disordine mondiale. L'idea che, sotto la presidenza Trump, Cina e Stati Uniti abbiano raggiunto la "parità" non è un complimento per Pechino; è un atto d'accusa verso un Occidente che ha smarrito la bussola strategica.

La "parità" di cui parliamo non è quella virtuosa di due economie integrate che competono lealmente. È la parità che si raggiunge quando il gatto (Washington) decide volontariamente di lasciare il campo ai topi, preferendo abbaiare contro i propri alleati (l'Europa) piuttosto che presidiare il territorio.

In questo vuoto strategico, la Cina di Xi Jinping non avanza: dilaga.

Il capolavoro del cinismo strategico di Pechino, come giustamente sottolineato, si gioca sul tavolo ucraino. La tesi è brutale quanto corretta: la Cina non ha alcun vantaggio nel promuovere una vera pace in Ucraina.

Perché dovrebbe? Il conflitto alle porte dell'Europa è, per il Dragone, un dono insperato.

Primo: è un pozzo senza fondo per le risorse occidentali. Ogni miliardo speso da Washington e Bruxelles per Kiev è un miliardo che non viene investito nel contenimento cinese nel Pacifico. Ogni missile Patriot inviato in Ucraina è un sistema d'arma in meno a difesa di Taiwan. L'amministrazione Trump, ossessionata dalla contabilità transazionale dell'impegno NATO, facilita involontariamente questo dissanguamento strategico, focalizzandosi sul "costo" immediato piuttosto che sul "valore" strategico a lungo termine.

Secondo: la guerra distrae. Mentre i media e le cancellerie occidentali sono (comprensibilmente) ipnotizzati dagli orrori quotidiani del Donbass, Pechino cementa la sua influenza economica in Africa, stringe patti in Medio Oriente e militarizza il Mar Cinese Meridionale. L'America di Trump, con il suo mantra "America First", segnala al mondo che il ruolo di gendarme globale è vacante. E Pechino ne prende atto.

Terzo, e forse più importante: la Russia. L'aggressione di Putin, fallimentare sul piano militare convenzionale, è stata un successo per la Cina. Ha trasformato la Russia da partner scomodo a vassallo energetico. Mosca, isolata e sanzionata, non ha altra scelta che vendere il suo gas e il suo petrolio a Pechino, a prezzi stracciati, e offrire copertura diplomatica in seno al Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Perché mai Xi Jinping dovrebbe rinunciare a un alleato così disperatamente sottomesso?

La cruda realtà è questa: la presidenza Trump, con la sua miscela di isolazionismo e realpolitik spicciola, ha accelerato il passaggio a un mondo multipolare che non sa gestire. Ha confuso l'"essere alla pari" con il disimpegno.

La pace in Ucraina, per Pechino, non è un obiettivo; è un fastidio. Significherebbe il ritorno dell'attenzione americana sul Pacifico e la possibile (seppur difficile) ricomposizione di un fronte occidentale. Molto meglio un'Europa impantanata in una guerra di logoramento e un'America che dubita del suo stesso ruolo.

L'analisi del Fatto è corretta: Pechino osserva, accumula e, soprattutto, attende. Non ha fretta. Il tempo, e il caos occidentale, giocano a suo favore. (Stefano Donno)




Il carnevale di Nizza e altri racconti di Irène Némirovsky (Adelphi)

Le prime «scritture brevi» di un’autrice ancora molto giovane, ma già in possesso di uno stile pienamente riconoscibile e di quella capacità di penetrazione psicologica che è soltanto sua.

Come fa una giovane donna di appena trent’anni, qual era all’epoca Irène Némi­rovsky, a scavare così profondamente nel­l’animo umano? si chiese Bernard Grasset, il suo primo editore, leggendo questi racconti. Come fa a capire, e a descrivere in modo così empatico e al tempo stesso spietato, non solo le lusinghe e le illusioni della giovinezza, ma anche la nostalgia de­gli amori perduti, il rimpianto delle vite non vissute, l’acredine delle esistenze sba­gliate, le ferite dell’ambizione frustrata, l’angoscia della solitudine, lo sgomento per i segni che lascia sul corpo il passare degli anni, la ferocia che si annida nel cuore de­gli uomini? Le prove giovanili di Némi­rovsky continuano a riempirci di stupo­re non meno di quelle della maturità: le quattro «scenette», per cominciare, di sa­pore quasi lubitschiano, dove due aspiran­ti attricette di incantevole amoralità met­tono in opera comici e insieme patetici tentativi di trovare un uomo molto ricco che le mantenga; i tre «film parlati» – in realtà vere e proprie narrazioni, condotte con la mano sapiente di uno sceneggiato­re navigato, in grado di dare indicazioni su inquadrature, stacchi, dissolvenze, mon­taggio; gli struggenti Una colazione in settembre e Le rive felici; il truculento affresco finlandese dei Fumi del vino... Fino al sor­prendente I giardini di Tauride, che appa­re qui in volume per la prima volta, e che, costellato di appunti in cui Némirovsky ri­flette sulla forma stessa del racconto, ci consente di gettare un’occhiata indiscreta nel suo laboratorio





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giovedì 30 ottobre 2025

Giustizia, la Riforma Sbagliata: Separare per Comandare Meglio? - ecco cosa ne penso

 La politica italiana vive di ETERNI RITORNI. Come una cometa che torna a intervalli regolari, riappare nel dibattito pubblico la "madre di tutte le riforme": quella della Giustizia. E, come sempre, la discussione si avvita non sui problemi reali del sistema — la lentezza esasperante dei processi, la carenza cronica di organico, la digitalizzazione a singhiozzo — ma su un'ossessione che sa di regolamento di conti: la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri.

Ancora una volta, ci viene presentata una presunta rivoluzione copernicana ammantata dalle migliori intenzioni. Ce lo dicono in tutti i modi: serve a garantire la "terzietà" del giudice, a creare un processo "ad armi pari", a smantellare un presunto "strapotere" delle procure. Parole d'ordine affascinanti, perfette per i titoli dei telegiornali. Ma un giornalista ha il dovere di grattare la vernice della propaganda.

E cosa troviamo sotto questa vernice? Troviamo il sospetto, neanche troppo velato, che l'obiettivo non sia una giustizia più efficiente, ma una magistratura più debole.

Analizziamo il punto focale: la separazione delle carriere. Si insiste sul fatto che pubblico ministero e giudice debbano essere due figure distinte, appartenenti a carriere diverse. Formalmente, lo sono già. Ma la narrazione politica vuole dipingere il PM come un "quasi-giudice" che influenza il vero giudice, in una sorta di "familiarità" che inquinerebbe il processo. È una tesi debole.

La verità è che separare le carriere in modo netto, magari creando due diversi Consigli Superiori (uno per i giudici, uno per i PM), rischia di produrre un effetto devastante. Il pubblico ministero, slegato dalla cultura giurisdizionale comune e dalla garanzia di indipendenza che (pur con tutte le sue storture) il CSM unico rappresenta, rischierebbe di diventare qualcosa di molto diverso: un super-avvocato dell'accusa, potenzialmente più sensibile alle direttive del potere esecutivo.

È questo che vogliamo? Un'accusa che risponde, anche indirettamente, alla politica? La storia del nostro Paese, da Tangentopoli in poi, dovrebbe insegnarci che l'indipendenza del PM — che in Italia, ricordiamolo, ha l'obbligo costituzionale dell'azione penale — è il primo argine contro la corruzione e l'abuso di potere.

La critica si estende inevitabilmente alla riforma del CSM. Si parla di sorteggio per combattere il "correntismo", ma il sorteggio (o "sorteggio temperato") è solo un altro modo per evitare il problema reale: la politicizzazione della magistratura associata. L'attuale crisi del CSM non si risolve con l'alea della sorte; si risolve con una riforma seria dei criteri elettorali e, soprattutto, restituendo centralità alla professionalità e al merito, non all'appartenenza.

Il sospetto, forte e sgradevole, è che questa intera impalcatura non serva a dare risposte ai cittadini che aspettano una sentenza da dieci anni. Serve a mandare un messaggio a quella parte della magistratura considerata "ostile" dalla politica. È una riforma punitiva, che confonde l'efficienza con il controllo.

Invece di separare le carriere, separiamo le ossessioni della politica dai bisogni reali del Paese. Vogliamo processi più rapidi? Assumiamo cancellieri, investiamo in infrastrutture, semplifichiamo le procedure. Volere un PM "separato" suona, oggi più che mai, come il desiderio di un PM "addomesticato". E una giustizia addomesticata non è più giustizia: è solo l'anticamera dell'arbitrio. (Stefano Donno)




La mia ultima storia per te di Sofia Assante (Mondadori)

Libro vincitore del Premio Viareggio Opera Prima 2025

Al suo esordio, Sofia Assante mette a punto una voce narrante ironica e irresistibilmente romantica, che omaggia esplicitamente alcuni grandi narratori americani, da Salinger a Fitzgerald a Dylan, ed è capace di far sorridere e al tempo stesso commuovere. E racconta una storia piena di segreti e sorprese narrative, attraversata da una domanda che tutti ci siamo fatti almeno una volta nella vita: possiamo davvero dire di conoscere le persone che abbiamo accanto?

«Quante cose ci sono dentro questo bel romanzo d'esordio: l'amicizia assoluta e lo spleen dell'adolescenza ma anche i misteri e le colpe di ogni famiglia e di ogni amore.» - Daria Bignardi

«Un libro denso, profondo, commovente, ironico. Sofia Assante è puro talento.» - Antonio Manzini

Andrea sta camminando per le strade di New York, in piena notte, quando riceve una telefonata. Riconosce subito la voce di Elettra, anche se non la sente da dieci anni. È lei la ragione per cui è scappato da Roma, la sua città, ed è proprio lei, ora, a chiedergli di tornare... Andrea ed Elettra si sono conosciuti a dodici anni, il giorno in cui lei si è trasferita nel palazzo del centro di Roma in cui Andrea è cresciuto. A parte l'indirizzo di casa, non hanno nulla in comune. Lui è il figlio di un ristoratore schivo e taciturno e d'estate lavora nella trattoria di famiglia, Da Amilcare. Lei fa parte dell'aristocrazia romana e i suoi genitori, gli Alfieri della Scala, sono colti, eleganti e amorevoli. Entrambi appartengono a una Roma che sta tramontando: Elettra a quella della nobiltà che ancora si incontra nelle stanze di Palazzo Borghese; Andrea alla Roma delle taverne del centro, come quella fondata dal nonno, sui cui tavoli giocavano a scopone Fellini, Scola e Monicelli. Sono ancora bambini quando, convinti che nulla potrà dividerli, sognano di morire insieme come Filemone e Bauci, trasformati da Zeus in una quercia e in un tiglio, uniti per il tronco. Ma l'idillio si rompe all'improvviso durante una vacanza nella villa sul lago degli Alfieri: la madre di Elettra viene coinvolta in un incidente d'auto e i due ragazzi trovano per sbaglio una lettera che instilla in loro un dubbio insostenibile. Quel dubbio e il segreto a cui li costringerà li terranno lontani per anni. Fino a questa telefonata, che è destinata a riaprire tutto ciò che era stato bruscamente interrotto e, forse, a regalare una seconda possibilità a quel primo amore mancato






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mercoledì 29 ottobre 2025

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Meloni-Orbán: l'amicizia di comodo e il "Patto del Diavolo" che logora l'Europa - ecco cosa ne penso

C'è un gioco delle parti che va in scena a Bruxelles e nelle capitali europee, e i due protagonisti più discussi sono, ancora una volta, Giorgia Meloni e Viktor Orbán. L'articolo de Linkiesta analizza gli "obiettivi" e la natura di questa "amicizia", ma la verità, spogliata dai convenevoli diplomatici, è molto più cruda: quella tra la Premier italiana e il leader ungherese non è un'alleanza strategica, è un baratto tattico. Un patto di convenienza che serve a entrambi, ma che rischia di costare caro all'Italia e all'Unione.

Da un lato, abbiamo un Viktor Orbán sempre più isolato. Con il Gruppo di Visegrád spaccato dalla sua posizione ambigua (per usare un eufemismo) sull'Ucraina e la sua deriva illiberale che lo ha reso un paria nel Partito Popolare Europeo, Orbán ha un disperato bisogno di legittimazione. Ha bisogno di un "cavallo di Troia" in una capitale che conta.

Giorgia Meloni è quel cavallo. Anzi, è la sua porta d'accesso al tavolo dei Grandi.

Dall'altro lato, abbiamo una Giorgia Meloni che gioca la partita più difficile: quella del "doppio forno". A Washington e a Bruxelles, veste i panni della leader atlantista, pragmatica, affidabile; la "nuova Merkel" per alcuni, la garante dello status quo mediterraneo per altri. A Roma, e soprattutto al suo elettorato di destra, deve però dimostrare di non essersi "venduta" all'establishment.

Ecco che Orbán diventa funzionale. L'amico Viktor serve a Meloni per blindare il gruppo dei Conservatori e Riformisti (ECR) al Parlamento Europeo, mantenendo una massa critica sovranista che le dia potere negoziale. È il suo asset per tenere sotto scacco i Popolari, per ricordare a Ursula von der Leyen che l'alternativa di destra esiste ed è compatta.

Ma a che prezzo?

Qui sta il punto critico, l'ipocrisia di fondo che Linkiesta giustamente sottintende. Non si può essere contemporaneamente il partner più affidabile di Joe Biden e il migliore amico dell'unico leader UE che flirta apertamente con Vladimir Putin e Xi Jinping. Non si può presiedere il G7 parlando di difesa della democrazia liberale e, il giorno dopo, difendere (o tacere) sulle strette alla stampa, alla magistratura e ai diritti LGBTQ+ che avvengono a Budapest.

L'analisi degli "obiettivi" è impietosa. L'obiettivo di Orbán è chiaro: smantellare l'UE dall'interno, trasformandola in un bancomat senza vincoli sui valori. L'obiettivo di Meloni è più complesso: cambiarla, ma restando al comando.

Il problema è che questo abbraccio tattico sta diventando tossico. Ogni volta che Meloni legittima Orbán, delegittima sé stessa sulla scena internazionale. Ogni volta che l'ungherese usa il veto sull'Ucraina, l'ombra di quell'"amicizia" si allunga sul governo italiano.

Meloni crede di usare Orbán per costruire la sua egemonia conservatrice. È un calcolo pericoloso. La storia recente insegna che i "cavalli di Troia" hanno la pessima abitudine di non obbedire al cavaliere una volta dentro le mura. L'amicizia, in politica, è la maschera dell'interesse. E in questo caso, gli interessi divergono su tutto ciò che conta: NATO, Russia, stato di diritto.

La Premier italiana sta giocando con il fuoco. Pensa di poter "normalizzare" l'illiberale di Budapest, ma il rischio concreto è che sia Orbán a "orbanizzare" il dibattito della destra europea, trascinando anche l'Italia in una zona grigia dove i confini tra alleati e avversari diventano pericolosamente sfumati. (Stefano Donno)




L'ultimo segreto di Via Volpi di Paola Minussi (BERTONI)

Rosa Carvalho, ispettrice della polizia giudiziaria di Lisbona, si imbatte in un caso inquietante: una donna viene ritrovata priva di memoria nel Jardim da Estrela e dopo un breve ricovero in ospedale, muore improvvisamente. Il caso viene archiviato in fretta, ma qualcosa non torna. Una scritta enigmatica comparsa sul corpo, insieme a una serie di dettagli inspiegabili, spingono Rosa a riaprire l’indagine. Le tracce la conducono fino a Como, tra le stanze polverose di un palazzo tanto affascinante quanto oscuro, noto un tempo come Il Dollaro, la casa di appuntamenti più celebre della città. Tra le sue mura echeggiano segreti inconfessabili e atroci delitti: l’ultimo dei quali accade allorquando un gruppo di amici elabora un perverso gioco di seduzione che si trasforma in una spirale di feroce violenza. Un noir inquietante che si dipana tra Como e Lisbona; un intreccio avvincente che pone interrogativi sul concetto di giusto e sbagliato. Una storia che ci conduce, mano nella mano, lungo la sottilissima ed evanescente linea di confine tra giustizia e vendetta




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martedì 28 ottobre 2025

3I/ATLAS È PERICOLOSO PER LA TERRA? Cosa sta succedendo?

Meloni, Orbán e l'illusione della "normalizzazione". A Palazzo Chigi va in scena il vertice dell'equilibrismo? - ecco cosa ne penso

 La stretta di mano a Palazzo Chigi c'è stata. E, come da copione, le foto ufficiali mostreranno due leader alleati, sorridenti, membri della stessa famiglia (o quasi) conservatrice europea. Ma l'incontro tra Giorgia Meloni e Viktor Orbán è tutto tranne che un vertice di routine. È il più plastico esempio della "doppia anima" della Premier italiana: atlantista di ferro a Washington e Bruxelles, ma costretta a gestire l'alleato più "scomodo" d'Europa, proprio mentre quest'ultimo si prepara a prendere il timone della Presidenza di turno del Consiglio UE.

Chiamatelo realismo, chiamatelo equilibrismo. A me pare, soprattutto, un esercizio di contenimento del danno.

Analizziamo il "menù" ufficiale, come riportato dalle cronache: competitività e difesa. Nomi altisonanti che nascondono voragini.

Sulla competitività, si parla di "dottrina Draghi", di come rendere l'UE più forte di fronte alla concorrenza cinese e americana. Un'ottima intenzione. Peccato che il modello economico di Orbán sia l'esatto opposto: un sistema illiberale, ultra-sovranista, drogato di fondi UE (quando non bloccati) e fondato sul cherry-picking delle regole del mercato unico. Chiedere a Orbán di guidare una riforma della competitività europea è come chiedere a una volpe di progettare un pollaio più sicuro.

Poi, la difesa comune. Qui l'ipocrisia raggiunge vette quasi artistiche. Meloni è, giustamente, la portabandiera del sostegno incrollabile a Kyiv. Orbán è, palesemente, il Cavallo di Troia di Vladimir Putin in Europa. Per mesi ha posto veti, rallentato sanzioni, bloccato aiuti militari, giocando sulla stanchezza dell'Occidente.

Come può Meloni "sondare le mosse" del leader ungherese su un piano di difesa comune, quando Orbán rema attivamente contro la strategia di difesa basilare dell'Unione, che oggi si chiama Ucraina?

Il punto non è cosa c'era sul tavolo, ma cosa c'era sotto il tavolo.

La vera partita non è la competitività, ma il potere. Orbán sta per diventare Presidente di turno del Consiglio UE. È un ruolo che, sebbene formale, offre un pulpito e un'agenda. Può rallentare, inquinare, deviare il dibattito. Meloni, da leader dell'ECR (Conservatori e Riformisti Europei), sa di aver bisogno dei voti di Fidesz (il partito di Orbán) per costruire la sua agognata maggioranza di destra a Strasburgo, magari tentando la storica ricucitura con il PPE.

Il vertice di Chigi non è servito a "smarcare Orbán dall'abbraccio di Putin", come qualche ingenuo stratega forse spera. Quell'abbraccio non è tattico, è strategico; per Orbán è sopravvivenza politica ed energetica.

No, questo incontro è servito a Meloni per tastare il polso all'incendiario prima di consegnargli i fiammiferi della Presidenza UE. È il tentativo disperato di ottenere rassicurazioni minime, di tracciare qualche linea rossa, sapendo già che Orbán le ignorerà alla prima occasione utile.

L'illusione della "normalizzazione" di Orbán è un gioco pericoloso che l'Europa ha già giocato e perso. L'ospite "scomodo" non è venuto a Roma per convertirsi sulla via dell'atlantismo. È venuto a farsi legittimare dalla leader italiana più forte del momento, per poi tornare a Budapest e continuare il suo metodico sabotaggio dall'interno.

Quella di Giorgia Meloni non è diplomazia. È gestione del rischio. Ma il rischio, con Orbán, non si gestisce: si subisce (Stefano Donno)








AMERICA LATINA: in libreria il saggio sulle visioni contemporanee di architettura sostenibile (Gangemi Editore)

Esce in libreria AMERICA LATINA. Vivere nella contemporaneità. Visioni di architettura sostenibile, un imponente progetto editoriale senza precedenti, promosso dall’IILA – Organizzazione Internazionale Italo-Latino Americana, curato da Paola Pisanelli Nero, pubblicato da Gangemi Editore e realizzato con il contributo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale italiano (DGCS/MAECI), e il sostegno di CAF - Banco de desarrollo de América Latina y el Caribe.

 

Il volume si aggiunge alla mostra realizzata nel 2024 presso la Galleria Candido Portinari dell’Ambasciata del Brasile a Roma e raccoglie 49 progetti rappresentativi delle più significative esperienze di architettura sostenibile contemporanea nei venti paesi membri dell’IILA, restituendo un’immagine concreta e articolata della cultura che si esprime oggi nella progettazione architettonica e negli spazi costruiti in America Latina.

 

Non si tratta di un semplice catalogo, ma di un’opera autonoma, trilingue (italiano, spagnolo e inglese), che si presenta come uno studio ragionato di casi studio declinati per assi tematici ed analizzati nel loro sviluppo progettuale, dal concept alla realizzazione, attraverso testi, immagini e disegni. I progetti, selezionati in anni di ricerca dall’autrice, che collabora con IILA dal 2003, si estendono dal paesaggio andino alle foreste tropicali, dalle metropoli alle aree rurali, e sono accomunati da una visione profonda e differenziata della sostenibilità, intesa non solo come attenzione all’intorno naturale per preservare gli ecosistemi, ma anche come rispetto per la cultura locale, uso responsabile dei materiali,  partecipazione delle comunità e rilettura delle tecniche e delle tradizioni costruttive da mantenere, aggiornare e tramandare

 

L’approccio curatoriale rifugge ogni stereotipo: il libro non privilegia i paesi più esposti mediaticamente, ma dà spazio a una molteplicità di voci, studi, territori. Come sottolinea Paola Pisanelli Nero, «nel corso del tempo mi sono resa conto che opere e progetti dell’architettura latinoamericana più diffusa erano soprattutto quelli risultati dall’esportazione di modelli europei contaminati con i materiali dell’America latina. La narrazione architettonica era assente in molti contesti internazionali, né venivano esportati i progetti. Ho pensato così di voler dare voce e spazio anche ai contesti più decentrati, dimostrando che l’innovazione, quando è radicata nel territorio, può superare ogni moda e ogni geografia. Un esempio su tutti è il peruviano Luis Longhi, che ha  costruito su una collina a pochi chilometri da Lima, vicino a resti pre-inca,  una casa ipogea, realizzata in pietra con tecniche artigianali e maestranze locali, lasciando al paesaggio il compito di suggerire la destinazione d’uso dello spazio. Essendo l’architettura l’espressione di un popolo, ogni progetto diventa qui una chiave per leggerne le radici e la prospettiva in cui è nato, e al contempo ogni architetto un interprete della propria cultura materiale.»

 

Tra i progetti illustrati troviamo la “Casa Parásito” a Quito, un prototipo urbano di  micro-abitazione o tiny house, che posta sulla copertura di fabbricati, rappresenta la risposta sostenibile ed inclusiva per risolvere le esigenze abitative delle giovani generazioni in coppia o single, la “Casa Fortunata” costruita attorno a un albero millenario e monumentale nel sud del Brasile, la “Vivienda Ara Pytu” in Paraguay, che si integra nel bosco secondo la visione cosmologica guaraní e che impiega il tetto- giardino per ridurre la temperatura interna e migliorare l'efficienza energetica, e la “Casa de la lluvia (de ideas)” a Bogotá, uno spazio sociale autogestito  realizzato con tecniche di autocostruzione e materiali locali. E, ancora, il  “Jardín Hospedero y Nectarífero” a Cali, il “CIVAC Parque Lineal” in Messico, il recupero di un vecchio caseggiato “Conventillo de La Boca” a Buenos Aires o la “Casa Pachacamac” scavata nella roccia vicino Lima, che disegnano una geografia architettonica che si nutre della diversità e della memoria dei luoghi. La “Iglesia sin religión” dell’architetto colombiano Simón Vélez, costruita in bambù guadua, rappresenta poi uno degli esempi più emblematici di questa visione organica e comunitaria dell’architettura.

 

Il libro è introdotto da un testo di Antonella Cavallari, Segretario Generale dell’IILA, che evidenzia l’importanza della cultura come leva per la trasformazione sostenibile: «Dobbiamo adeguare i nostri modelli per renderli compatibili con il rispetto del Pianeta Terra, e quale miglior mezzo per produrre tale cambio se non la cultura?». E della cultura è parte integrante l’architettura, che offre un contributo fondamentale: tutti noi abitiamo spazi pubblici e privati e questi spazi sono la prima dimostrazione della sostenibilità del nostro modello di vita». L’iniziativa editoriale si inserisce infatti in un più ampio impegno dell’IILA per promuovere la transizione verde attraverso progetti mirati e una narrazione condivisa.

 

Parallelamente alla pubblicazione, è stato sviluppato un sito web dedicato – www.americalatinarchitettura.com – che ospita la mostra multimediale, concepita per rendere accessibile e coinvolgente l’esperienza. Il visitatore può esplorare una selezione di immagini, testi, contenuti audio e visivi dei progetti, immergendosi nella realtà dei luoghi raccontati nel libro e accompagnato da una colonna sonora originale che restituisce l’atmosfera dei diversi territori. Un percorso pensato per ampliare il pubblico, abbattere le distanze e diffondere il valore di queste architetture oltre ogni confine. La piattaforma infine ha permesso di creare una rete importante di connessione tra architetti latinoamericani e italiani, un nuovo patrimonio di relazioni ed esperienze senz’altro utilissimo.

 

Il volume, distribuito da Messaggerie, è attualmente disponibile presso tutte le principali librerie e piattaforme digitali.


Paola Pisanelli Nero, architetto italo-panamense laureata in Architettura all’Università degli Studi di Roma La Sapienza, ha poi conseguito la laurea magistrale in Architettura presso la Facultad de Arquitectura de Panamá. Già “Cultore della Materia” in Tecnologia dell’Architettura presso la Facoltà

di Architettura della Sapienza di Roma, studia la tecnologia dei materiali da costruzione. Nel 2003 ha co-fondato “MATMAT Materia e Materiali”, associazione con la partecipazione di docenti universitari e industrie dei materiali per diffondere la cultura dei materiali da costruzione. Ha partecipato a convegni e corsi. Cura progetti ed esposizioni internazionali di arte e architettura con particolare attenzione all’America Latina. Dal 2003 è consulente dell’IILA.






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lunedì 27 ottobre 2025

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La Tregua dei Giganti: Perché l'Accordo USA-Cina è solo un Cerotto sulla Frattura Globale - ecco cosa ne penso

Mentre le agenzie battono la notizia e i mercati festeggiano la stretta di mano tra Washington e Pechino, è d'obbligo, per chi osserva la geopolitica senza lenti colorate di rosa, raffreddare gli entusiasmi. Non assistiamo alla fine della Seconda Guerra Fredda; assistiamo, nel migliore dei casi, a una sua sospensione tattica. Un armistizio dettato dalla necessità, non dalla volontà.

Sia chiaro: un dialogo tra le due superpotenze è preferibile a un'escalation incontrollata. Ma l'accordo raggiunto – che La Repubblica suggerisce sia stato analizzato criticamente da voci autorevoli come quella di Sergey Radchenko – non è una pace. È un cerotto.

È un cerotto applicato da due economie che, semplicemente, non potevano più sostenere il ritmo dello scontro frontale. Da un lato, un'America alle prese con un'inflazione che morde e la necessità di stabilizzare i fronti prima di un ciclo elettorale; dall'altro, una Cina che fa i conti con i fantasmi del proprio modello di sviluppo: una crisi immobiliare sistemica, un debito interno galoppante e una demografia che rema contro.

Hanno comprato tempo. Ma a quale prezzo e, soprattutto, lasciando cosa fuori dal tavolo?

Qui sta il punto dolente, l'inganno di questa pax temporanea. L'accordo, presumibilmente di natura commerciale o tariffaria, non tocca – perché non può toccare – il cuore della contesa: la supremazia tecnologica e militare.

Possiamo essere certi che l'intesa non risolva la "guerra dei chip", né fermi la corsa disperata all'Intelligenza Artificiale generativa e militare. Non definisce uno status quo accettabile su Taiwan, che resta la faglia tettonica più pericolosa del pianeta. Non smantella l'architettura delle alleanze contrapposte (AUKUS da un lato, l'asse con Mosca e Teheran dall'altro).

È un accordo che gestisce i sintomi, ignorando la malattia. La malattia è la competizione sistemica tra due modelli incompatibili, una contesa per definire le regole del XXI secolo.

E l'Europa? L'Europa, come al solito, è il grande assente.

Siamo i convitati di pietra a un banchetto a cui non siamo stati invitati. In questo G2 che gestisce il pianeta, l'Unione Europea rimane un ricco mercato da conquistare e un consumatore di sicurezza (americana), ma tragicamente privo di una volontà di potenza autonoma.

Mentre Washington e Pechino decidono quali tecnologie saranno permesse e quali bandite, quali rotte commerciali proteggere e quali strangolare, Bruxelles si divide su dettagli regolatori, incapace di esprimere una voce strategica unitaria.

Questo accordo, quindi, non è una buona notizia per l'Europa. È un campanello d'allarme assordante. Dimostra che i due giganti possono alzare o abbassare la tensione a loro piacimento, trattando il resto del mondo come scenario secondario. Se non ci svegliamo da questo sonno strategico, finiremo per essere il terreno di gioco della loro prossima crisi, o il prezzo da pagare nel loro prossimo accordo. (Stefano Donno)




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domenica 26 ottobre 2025

L'agenda di famiglia e la "Rivoluzione" sulla Giustizia: Marina Berlusconi e l'ombra lunga di Arcore - ecco cosa ne penso

 Che la separazione delle carriere fosse il cuore pulsante della riforma della giustizia voluta da questo governo, era noto. Che fosse un vecchio pallino del centrodestra, altrettanto. Ma la recente "discesa in campo" di Marina Berlusconi, che dalle colonne del Fatto Quotidiano e altre testate plaude all'intervento definendolo "una rivoluzione", opera uno svelamento politico cruciale. Sgombra il campo da ogni tecnicismo e riporta la battaglia esattamente dove era nata: nello scontro trentennale tra un'idea di potere e l'autonomia della magistratura.

Quando la presidente di Fininvest e Mondadori parla di giustizia, non parla mai da semplice cittadina. Parla da erede, non solo economica ma politica, di una visione del mondo e dello Stato che ha nel presunto "strapotere" delle procure il suo nemico giurato. Sentirla parlare, come riportano le cronache, delle "due facce" della giustizia e della "drammatica esperienza subita dal padre", non è un'analisi. È una rivendicazione.

Non si tratta, e non si è mai trattato, di migliorare l'efficienza del sistema o di aderire a un modello astrattamente più liberale. Si tratta di saldare un conto.

La "rivoluzione", termine che la stessa Berlusconi usa con enfasi, suona sinistra alle orecchie di chi, come l'Associazione Nazionale Magistrati o l'assemblea internazionale dei giudici citata dal Fatto, vede in questa riforma non una garanzia in più per i cittadini, ma un passo decisivo verso l'assoggettamento del pubblico ministero al potere esecutivo.

Mentre l'ANM bolla le critiche di Marina Berlusconi come il solito tentativo di delegittimazione, parlando di "errori fisiologici" del sistema, e mentre un magistrato del calibro di Nicola Gratteri avverte che l'obiettivo è "trasformare i pm in burocrati" per "impaurirli", la figlia del fondatore di Forza Italia offre la vera chiave di lettura. La riforma non è tecnica; è filosofica. Anzi, è dinastica.

È la prosecuzione, con mezzi oggi governativi, di una guerra iniziata a metà degli anni '90. La separazione delle carriere, nella narrazione berlusconiana, non serve a rendere il giudice più "terzo". Serve a indebolire l'accusatore. Serve a spezzare quel legame di "cultura della giurisdizione" che, pur con tutti i suoi difetti, ha garantito finora che il pm non fosse un semplice "avvocato dell'accusa" alle dipendenze della politica, ma un magistrato custode della legalità.

L'intervento a gamba tesa della presidente Mondadori, in un momento così delicato del dibattito parlamentare, non è un endorsement: è un avviso. È il sigillo di famiglia su una legge che non promette una giustizia migliore, ma una giustizia più debole. Una "rivoluzione", appunto, che mira a rovesciare non gli errori del sistema, ma uno dei pilastri fondamentali dell'equilibrio democratico. (Stefano Donno)

 

A proposito di Casanova di Miklós Szentkuthy (Adelphi)

  Miklós Szentkuthy, saggista, memorialista, romanziere – paragonato a Borges per l’erudizione e a Joyce (ne aveva tradotto l’ Ulisse ) per ...